Pietro il fortunato: recensione del film Netflix di Bille August

'Pietro il fortunato', mélo del regista danese Bille August, racconta l'ascesa incompiuta di un giovane campagnolo ambizioso, tra sfide professionali e un grande amore 'impossibile'

Fine Ottocento. Peter Sidenius (Esben Smed) è un giovane proveniente dalla Danimarca rurale: è cresciuto in un ambiente famigliare condizionato da una religiosità asfissiante, disprezzando il padre bigotto e autoritario. A differenza del genitore, luterano fanatico spaventato dalle seduzioni mondane, il ragazzo ha grandi ambizioni, vuole trasferirsi a Copenaghen, studiare Ingegneria, cambiare la società con la sua visione progressista di futuro. A costo di tagliare nettamente i ponti con i suoi affetti, decide di inseguire il sogno.

I primi tempi sono duri: deve accontentarsi di fare il cameriere per racimolare i soldi per studiare, attua degli espedienti discutibili per ottenere abiti di sartoria che commissiona ma non può permettersi, intreccia una relazione con una ragazza della sua stessa classe sociale, salvo poi vergognarsi di lei quando alla fine ce la fa. Grazie all’amicizia con Ivan, cacciatore di talenti, Peter riesce, infatti, a introdursi nella facoltosa famiglia ebrea dei Salomon e, in poco tempo, s’innamora, ricambiato, della bella e sofisticata figlia del capofamiglia, Jakobe (Katrine Greis-Rosenthal), promessa sposa ad un uomo più vecchio e facoltoso.

La parabola ascendente del giovane Sidenius, uomo di genio e di volontà, si incrina, però, di fronte alla limitatezza auto-indotta della sua mente, alla persistenza di un complesso di inferiorità non estirpabile, di un’impossibilità profonda di dire addio ad un mondo interiorizzato, a un codice morale (o, forse, solo moralista e rigidamente classista) che ha permeato i recessi più fondi del proprio sé. La favola luminosa di un riscatto sociale meritocratico volge in fretta in una tragedia addomesticata: il protagonista voleva diventare altro da suo padre, ma si ritrova come lui, respingente e spaventoso agli occhi di suo figlio.

Pietro il fortunato è l’adattamento di un romanzo danese in otto volumi, pubblicato tra fine Ottocento e inizio Novecento

Tratto dal romanzo in otto volumi Lykke-Per (“Pietro il fortunato”) del Premio Nobel Henrik Pontoppidan, il film di Bille August, regista dalla lunga esperienza e dalla prestigiosa carriera (fu pupillo di Ingmar Bergman, che ne elogiò la trasposizione del suo script autobiografico Con le migliori intenzioni), avrebbe dovuto seguire più fedelmente non tanto il testo adattato quanto l’indicazione data dalla dilazione del racconto romanzesco, accantonando la forma del lungometraggio in favore di una produzione seriale, contenuta, ma comunque scandita da più episodi. Benché risulti un’opera elegante e rarefatta, le enormi potenzialità della materia rappresentata illanguidiscono nella lunghezza eccessiva di un prodotto finale che paga una sensibilità registica anacronistica, che oggi fatica a incontrare una piena corrispondenza di gusto.

Un film godibile, ma non indimenticabile che si sarebbe potuto aprire al discorso seriale e alle sue diverse possibilità

Resta il fatto che Pietro il fortunato sia un film estremamente interessante per il racconto di una Danimarca aliena al nostro immaginario imbevuto dal mito della Scandinavia liberale e inclusiva: nel 1880 era tutt’altro, socialmente divisa, attraversata da una spiritualità problematica, in estenuante negoziazione tra le ragioni delle apparenze e quelle dei desideri profondi, con i suoi ‘nuovi’ eroi che subiscono non tanto la tirannia della realtà, quanto quella dei loro stessi complessi, di perturbazioni inconsce e irrisolte.

Pur non dovendo necessariamente rinunciare alla sua impostazione estetica debitrice dei più alti paradigmi del melodramma, sontuosa e démodé, il film avrebbe guadagnato nel guardare a prodotti  seriali di qualità che rileggono il passato con una felice commistione fra glamour e scrittura incalzante come, ad esempio, il tedesco Babylon Berlin. Pietro il fortunato è, in questo senso, un’occasione mancata: aveva tutte le carte in regola per farsi tassello di una rivoluzione dello story-telling ma, per fedeltà a stilemi passati, questa rivoluzione non si è compiuta. Annacquato dalla volontà distributiva di ampliare il più possibile il bacino di fruizione, anche quel carattere tutto scandinavo di riserbo ‘verticale’, di un pudore intriso di angoscia e desiderio, si perde un po’, e la caduta di Peter, ex fortunato, immalinconisce, ma non dissesta, non scuote in profondità le coscienze degli spettatori.

Regia - 3
Sceneggiatura - 2.5
Fotografia - 3
Recitazione - 2.5
Sonoro - 2
Emozione - 2

2.5

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