Pinocchio (2019): recensione del film di Matteo Garrone
Pinocchio di Matteo Garrone trasuda perfezione a ogni dettaglio risultando, probabilmente, la miglior trasposizione di sempre!
Solo Matteo Garrone poteva sfogliare le pagine della favola Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino (scritta da Carlo Collodi tra il 1881 e il 1883) e restituire al pubblico un film che ripercorre fedelmente i fatti salienti del burattino più famoso di tutti i tempi, adagiati su un’impalcatura che non tradisce né occulta lo sguardo del regista. La poeticità talvolta grottesca delle immagini che emergono dallo schermo si intreccia al racconto di formazione più noto del mondo, adornato di una pura e profondamente meravigliosa devozione per ciò che il racconto di Collodi rappresenta e che non tralascia neanche un briciolo della bellezza made in Italy: nei paesaggi, nella scelta degli attori, nelle musiche. Tutto suggerisce e grida a gran voce il talento del regista che, dopo aver stupito con opere come Il Racconto dei Racconti e Dogman, non tradisce le altissime aspettative celate dietro a questa ennesima trasposizione.
Pinocchio (2019): storia di un burattino che imparò a vivere
Nello scenario sgretolato, umido, logoro e grigio/verdastro di un paesino da presepe inizia la storia di un poverissimo ma simpatico Geppetto (Roberto Benigni) che, attanagliato dalla fame, riceve l’illuminazione della vita con l’arrivo del teatro dei burattini, che lo induce immediatamente a una soluzione: costruire un burattino e girare il mondo per guadagnarsi da vivere. Ciò che accade al falegname, però, ha dello straordinario e lo sappiamo tutti: Pinocchio non è una semplice marionetta, ma un bambino di legno perfettamente in grado di muoversi, parlare, giocare e, soprattutto, mettersi nei guai!
Garrone, che ha anche curato la sceneggiatura del film insieme a Massimo Ceccherini, si dimostra fedele all’opera letteraria, lasciando che mostri e creature fantastiche prendano vita in una danza in cui si amalgamano tutti i sentimenti umani, soprattutto i peggiori. Le tentazioni, le speranze e le cattiverie del mondo si riversano tutte in un microcosmo dal sapore antico, sospeso in uno spazio perennemente irraggiungibile quanto vicino, una città organizzata e credibile, nella quale muoversi senza esitazioni.
La raffinata artigianalità di Matteo Garrone e della sua troupe al servizio di Pinocchio
Con la sua macchina da presa Garrone intaglia e intarsia paesaggi e personaggi; facendo affidamento all’aggiunta protesica del maestoso trucco di Mark Coulier (The Grand Budapest Hotel, Harry Potter) carica gli interpreti di artefici e allo stesso tempo li spoglia agli occhi dello spettatore: così complessi, artefatti, visivamente carichi, il Mangiafuoco di Gigi Proietti, la Lumaca di Maria Pia Timo, il Grillo Parlante di Davide Marotta, sono assolutamente ciò che devono essere: ingranaggi di un meccanismo complesso il cui fil rouge conduce alla coscienza dell’essere umano. Nessuna tecnologia avanzata, come per Il Racconto dei Racconti, intacca l’assurdo realismo, sorretto da effetti speciali artigianali che abbattono la “quarta parete”, facendoci toccare con mano le venature che percorrono il viso e il corpo di Pinocchio. In quel trucco così certosino umanità e finzione diventano inscindibili e il pubblico assapora con voracità i parallelismi tra la parabola di vita del protagonista e la propria, comune, esistenza umana.
Il Pinocchio di Garrone (proprio come quello di Collodi) è metafora del viaggio che ogni singolo individuo compie per scoprire chi è e chi vorrebbe diventare. Noi, troppo spesso burattini del destino, in balia di avventori affascinanti e pericolosi proprio come il Gatto e la Volpe interpretati da Rocco Papaleo e Massimo Ceccherini (azzeccatissimi!), che inciampiamo nei nostri errori, senza ascoltare il nostro Grillo parlante (magari finendolo con una martellata proprio come Pinocchio), che ci lasciamo tentare dal Paese dei Balocchi, constatando che crescere è troppo difficile e impegnativo. Anche tutti noi, proprio come Pinocchio, alla fine sappiamo bene che il tempo è un plusvalore e che portare addosso l’impeto del naturale mutamento equivale a “essere”, esistere come umani.
Pinocchio (2019) e l’azzeccato cast in cui ognuno è esattamente chi dovrebbe essere
Il regista afferra e traspone devotamente tale morale, non lesina dettagli grotteschi, violenti, parallelismi con le sacre scritture, non ha paura di calarsi nel modus operandi ottocentesco pur di restituire agli spettatori un Pinocchio autentico e senza tempo, un Pinocchio che non è fiaba (ma lo è mai stata?) ma esplorazione del mondo, nel bene e nel male. Una realtà che esiste ovunque e che sul grande schermo cinematografico sarebbe stata inattuabile senza il supporto di interpreti così talentosamente ineccepibili.
La figura paterna di Geppetto si impadronisce completamente di Roberto Benigni in un’escalation di veridicità ed empatia in cui l’attore mette sul piatto tutta la sua fisicità: striminzito, infreddolito, con la barba incolta, si presta a scenette alla Charlie Chaplin che impreziosiscono l’angusta e dettagliata scenografia (opera di Dimitri Capuani). C’è un’umanità, una compassione, un coraggio e un amore incondizionato in Geppetto, che bilancia tutta la falsità e le menzogne alle quali assistiamo per gran parte della durata del film.
Il piccolo Federico Ielapi emula con perfezione e disinvoltura la pigrizia e la semplicioneria di Pinocchio e gli altri attori non sono da meno: ognuno con la propria piccola grande parte (Alida Baldari Calabria e Marine Vacth nei panni della versione bambina e adulta della Fata Turchina, Alessio Di Domenicantonio in Lucignolo, Paolo Graziosi nei panni di Mastro Ciliegia, Massimiliano Gallo nei panni del Corvo, Teco Celio in quelli del giudice Gorilla, Gianfranco Gallo e Marcello Fonte in la Civetta e il Pappagallo, Enzo Vetrano nei panni del maestro, Nino Scardina in quelli dell’Omino di burro e Maurizio Lombardi in quelli del Tonno), contribuiscono a dare voce al mondo di Pinocchio.
Il Pinocchio di Matteo Garrone, sorretto dalle musiche di Dario Marianelli e dalla fotografia di Nicolaj Brüel
Sincronizza il tutto la pittorica fotografia di Nicolaj Brüel (vincitore del David di Donatello nel 2019 per Dogman), con quelle immagini in cui l’accecante luce del sole satura la vista, mentre il chiaroscuro del faro lunare addolcisce e culla fiumi di emozioni. I colori sono vivi, vissuti, pregni di antichità e ricordi stampati su carta non riciclata.
E le musiche del premio Oscar Dario Marianelli, fatte di pianoforte e fiati, che strizzano l’occhio a Ennio Morricone e ci conducono in un’atmosfera che trasuda di feste natalizie non fanno che guidare passo dopo passo il tragitto a ostacoli del burattino nella sua avventura che lo porterà, dopo un tempo indefinito, a diventare un bambino vero.
Insomma, come dicevamo in principio, solo Matteo Garrone poteva trasporre il romanzo per ragazzi più amato e abusato di sempre, regalando probabilmente la migliore reinterpretazione dell’opera di Collodi.
Pinocchio è al cinema dal 19 Dicembre 2019 con 01 Distribution.