Pinocchio di Guillermo del Toro: recensione del film Netflix
Pinocchio di Guillermo del Toro è uno dei migliori, forse il migliore, tra gli adattamenti per il cinema del classico di Carlo Collodi. Tra emozione, stop-motion e apologo antifascista.
Si chiama Pinocchio di Guillermo del Toro e non si pensi a un vezzo narcisista. Non per caso uno dei massimi autori del cinema contemporaneo sente il bisogno di farci sapere che questa è la SUA interpretazione, personalissima e insieme accogliente, di un classico intramontabile della letteratura per l’infanzia. La ragione di una scelta tanto curiosa è che l’adattamento, in stop-motion, senza intaccare l’anima fantasy e una certa impressione di cupezza del testo originale, restituisce una visione perfettamente in sintonia col gusto del suo autore senza tradire il bisogno di emozione e avventura del pubblico. Il film, diretto sì da Guillermo del Toro ma insieme a Mark Gustafson, arriva nei cinema italiani il 4 dicembre 2022, in un numero selezionato di sale, per poi sbarcare su Netflix a partire dal 9 dicembre.
Pinocchio di Guillermo del Toro è un esercizio di libertà a più livelli, cominciando proprio dal rapporto con l’originale. In un mondo di repliche serialità compulsiva il film non è l’unico adattamento del romanzo di Collodi uscito nel 2022, non bisogna dimenticarsi della proposta live action di Robert Zemeckis che però ha avuto un’accoglienza contrastata. La versione del Toro cerca di conservare la freschezza dell’operazione rimescolando le carte. Un modo di farlo è, per esempio, metter mano alla platea dei personaggi (se perdonate la terrificante espressione), qui riaggiustando un carattere quel tanto che basta, lì invece cambiando, decisamente cambiando. Il cast vocale originale è impressionante. Ewan McGregor, David Bradley, Christoph Waltz, Tilda Swinton, John Turturro, Cate Blanchett, Tim Blake Nelson, Finn Wolfhard. La voce di Pinocchio è di Gregory Mann.
Pinocchio di Guillermo del Toro: il dolore di un padre, il grillo e il burattino
Adattamento creativo e rispettoso, nello spirito, non nella carne viva della storia, è il modo migliore, di Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, romanzo scritto da Carlo Collodi e pubblicato per la prima volta nel 1883. Geppetto (David Bradley) è un artigiano dal talento notevole, vedovo e padre calorosissimo di Carlo. Sta lavorando a un crocifisso in legno da sistemare proprio sopra l’altare della chiesa del paese. Il lavoro gliel’ha commissionato il parroco (Tim Blake Nelson) ed è a un passo dall’esser completato; succede però che la Grande Guerra gli porta via il figlio e a quel punto non c’è ragione di andare avanti. Il crocifisso è incompleto, la vita di Geppetto è incompleta. Fine della storia, in realtà i primi quindici minuti di Pinocchio di Guillermo del Toro.
Passano gli anni e le cose per Geppetto non migliorano, si può dirlo anche del mondo che lo circonda. È arrivato il fascismo, c’è un ridicolo e inquietante Podestà (Ron Perlman) che fa il bello e il cattivo tempo giù in paese; custode della morale, non gradisce l’idea di un burattino parlante che se ne va a zonzo nel paese. Dannato bacchettone e ha pure un figlio teppista, Lucignolo (Finn Wolfhard). Tutte queste informazioni lo spettatore le riceve come riflesso del racconto di un narratore d’eccezione. Dice molte cose e ne fa anche di più, non si ferma mai e, insomma, lavora come un matto. Peccato che nessuno si prenda mai la briga di starlo ad ascoltare. L’amaro calice e il mestieraccio del Grillo Parlante.
Si chiama Sebastian, in originale (meravigliosamente) Sebastian J. Cricket (Ewan McGregor), è abbastanza vanesio, generalmente maltrattato e, in una parola, adorabile. Sebastian è testimone del prodigio. Il culmine emotivo di Pinocchio di Guillermo del Toro e anche un momento utile per cogliere certi nodi tematici centrali nel disegno del film. Non c’è niente di accomodante nel modo in cui il burattino viene, si fa per dire, alla luce. Gli antefatti sono una sbornia triste, l’ennesima per Geppetto, incorniciata da un dolore lancinante. L’atto in sé è l’espressione di un impeto di rabbia, sembianze abbozzate con fretta nervosa e poi via, al sonno artificiale indotto dall’alcool.
Il legno inerte deve prender vita e perché questo accada occorre l’intervento della Fata (Tilda Swinton), Turchina ma fino a un certo punto, la storia si prende qualche libertà con lei, ha una ”gemella” nell’oltretomba con cui il burattino si confronterà a più riprese, che ha molto da imparare sulla fragilità dell’esistenza. Questo succede più avanti nella storia, sul momento Pinocchio è vivo e basta, nel pieno della fase impara ed esplora, mentre Geppetto è sconvolto perché la sorte gli ha regalato un figlio ma lui non sa che farsene. Improvvisa e imprevista, la separazione. Pinocchio si riduce a fare il saltimbanco, sfruttato e maltrattato, al guinzaglio del Conte Volpe (Christoph Waltz) e del suo fido collaboratore, Spazzatura (Cate Blanchett). Si esibirà davanti a Mussolini dando prova di un antifascismo inconsapevole ma molto apprezzabile. Geppetto, fosse per lui, lo inseguirebbe fino in capo al mondo e infatti è così che fa. Lo attende, li attende, ci attende, il ventre di un grosso pesce. Ma questa è storia nota. Il resto, l’emozione, l’atmosfera, la carica politica e le venature esistenziali di un film magnifico, meno. È ora di farci i conti.
Perché e come Pinocchio di Guillermo del Toro riesce dove molti film contemporanei falliscono
Pinocchio di Guillermo del Toro è un film solido narrativamente, credibile dal punto di vista politico, sentimentale ma nell’accezione più integra e tollerabile, di una modernità fresca e non sbadata. Riesce dove la maggior parte dei film contemporanei fallisce, vale a dire incastrare nell’architettura del racconto temi tanti e per nulla ordinari, perché la sua natura stratificata è perfettamente intonata al senso del cinema dell’autore. Guillermo del Toro si è sempre divertito a intrecciare cinema di genere e riflessione, Storia e sentimento, sul fondo di una tavolozza horror ma infusa di suggestioni fantasy o magari è il contrario, decidete voi.
Il film è prima di tutto la storia di un padre e un figlio, delle distanze che li separano e del lungo viaggio necessario per ritrovarsi e imparare ad amarsi, amarsi per quel che si è. Il cammino dei personaggi è segnato da una concezione della vita onesta, comunque un boccone amaro da mandar giù. Qualcosa in più dell’esplorazione della caducità e della precarietà dell’esistenza. C’è un padre che perde un figlio, c’è il dolore per una separazione a cui proprio non si può rimediare. Il respiro del film è il dolore, ma senza ripiegamenti e senza morbosità. Il dolore è in effetti il perno su cui poggiano molte cose in Pinocchio di Guillermo del Toro. Non c’è nulla di vivo che non passi attraverso il dolore, nulla. L’amore, l’arte, la bellezza. La sfida, suggerisce il film, è trovare il modo di mettere a frutto questa sofferenza per tirar fuori qualcosa di vitale. La strada è tracciata.
E il fascismo e la sua rappresentazione, che circonda le peripezie dei protagonisti e talvolta sembra solo posato sulla storia, altrove è il centro della storia, non è solo funzionale a tessere l’elogio della trasgressione in faccia all’ottusità e al grigiore. Il punto, Guillermo del Toro sa coglierlo meglio di tanti sedicenti analisti e interpreti di casa nostra, è che il fascismo è scuola di guerra, di inimicizia e di morte. Il fascismo è il rifugio dei burattini, quelli veri. E questo è il quadro politico, che è tanto ma non tutto. C’è l’eleganza misurata dei numeri musicali, la precisione artigiana e la fluidità di una stop-motion pregevole; Guillermo del Toro ha dovuto aspettare molto tempo prima di fissare la sua versione della storia e del personaggio, la meta però ha ripagato delle fatiche del viaggio. Pinocchio di Guillermo del Toro è, se non il migliore, uno degli adattamenti più riusciti.
La ragione del suo convincente successo è il virtuosismo di uno sguardo autoriale che sa render conto alle divinità supreme in materie come questa, fedeltà e tradimento. In egual parte dolore e slancio ottimistico, risata e inquietudine horror, il film cambia molto della storia originale, moltissimo. Nomi, personaggi, sfondo storico. Pure, l’impressione è di accogliere con un sorriso un amico che non si vedeva da tempo, anzi due. L’impronta (impossibile da fraintendere) di una vicenda fuori dal tempo, la mano di un grande regista.