Playing God – recensione del corto in stop motion da Venezia 81
Il cortometraggio in stop motion di Studio Croma e Autour de Minuit, in concorso a Venezia 2024
Playing God è un corto in stop motion, diretto da Matteo Burani e animato da Arianna Gheller, frutto del sodalizio fra l’italiano Studio Croma animation e il francese Autour de Minuit.
Si tratta di un piccolo film che utilizza tre tecniche di animazione: la claymation – animazione a passo uno di figure in plastilina -, la puppet animation – l’animazione, sempre a passo uno, di modellini in stile Harryhausen – e la pixilation – che integra, animandoli frame by frame, attori reali a pupazzi e modellini in plastilina. Racconta di una creatura “costruita” in un laboratorio e abbandonata su un bancone in mezzo ad altre creature di scarto. Il protagonista cerca di scappare dal proprio piedistallo per raggiungere quello che appare essere un freddo e non curante Creatore. Cade, subisce una malformazione e viene accolto fra gli altri esseri deformi, che circondano il banco di lavoro.
Playing God: la forma del Cinema
Burani, con questo lavoro, sembra volere andare alla radice della rappresentazione cinematografica, cioè quella che consiste nel rapporto fra la forma plastica e il movimento. Il fulcro del potere poietico del dispositivo cinematografico infatti, come vuole una certa tradizione che risale a A. Michotte van der Beck, può essere rintracciato nella capacità del movimento di restituire alle forme animate sullo schermo, quell’autonomia e corporeità che la fotografia statica invece nega loro. Le immagini sullo schermo smettono di essere icone, indici di qualcosa di già dato e diventano forme plastiche, cangianti, in grado di plasmare la realtà, in termini neoplatonici. Va da sé che una simile prospettiva assume un valore realmente dirompente, quando si interroga sul rapporto che questa forza ontogenetica intrattiene con il mediatore primo della percezione umana del reale, cioé il corpo.
Playing God, a suo modo, ci parla proprio di questo. Nell’inscenare la creazione come un procedimento artistico, richiama il meccanismo filmico. Non a caso tutto inizia con l’accensione di una luce artificiale – la luce della proiezione ma anche l’alchemica luce della vita – e il Creatore presenta uno sguardo ceruleo, vuoto. La visione onnicomprensiva, ma priva di emozioni è un attributo dell’Essere supremo. L’Essere guarda meccanicamente, come il cinema, registra gli eventi e come il cinema, registrando, crea. La creatura, a sua volta, è un corpo maschile perfetto, bello e regolare, il cui sguardo tradisce tutto lo spettro emotivo umano – guardare (il cinema) come atto di desiderio, precipuo dell’uomo. Un indice tradizionale dell’umano. La rappresentazione dell’uomo, passa qui per un corpo classicamente proporzionato che desidera, cioè vive, attraverso lo sguardo.
Soggettività scisse
Burani chiama in causa allora l’identità. Il corpo della sua creatura dai grandi occhi è un’idea di umano, un’idea astratta e adamantina, che non appena desidera, vive. Vivere significa conoscere e biblicamente la conoscenza condanna il soggetto al deterioramento. L’identità primigenia rappresentazione culturale, frutto di un dio/dispositivo/creatore indifferente, finisce per dover cedere il passo all’imperfezione e al dolore di un’identità soggettiva/relativa scissa e in divenire. Si ricordi infatti, che secondo certa critica di matrice deleuziana, le ferite corporee, le sue deformazioni, altro non sono che segni del divenire, cioè della vita, infusa alle forme proprio da quel tempo che ne determina l’esistenza. E proprio questo divenire è segno dell’identità scissa dello spettatore/pubblico di massa, che ha ottenuto la conoscenza della propria transitorietà.
Una nota agrodolce chiude il lavoro. Scaraventato nella consapevolezza del dolore, il soggetto in crisi trova solidarietà fra i suoi simili. Il cinema ci rende tutti consapevoli della nostra comune sorte – e si spera solidali.
Playing God: valutazione e conclusione
Playing God, risulta dunque affascinante per la sua capacità di tirare in ballo questioni esistenziali, dal sapore antico, spesso trascurate dal cinema d’animazione nostrano, troppo avvitato attorno a patetismi falsamente sociali o a un fiabesco consolatorio, poco emozionante. Inoltre il fatto che lo faccia gestendo, con una certa perizia, tutte le tecniche filmiche di cui si compone – Burani si arrischia a usare anche inquadrature a spalla, il che nell’animazione a passo uno richiede abilità – rende Playing God un lavoro sicuramente all’altezza della Mostra del Cinema di Venezia 2024, dove è stato presentato durante la Settimana internazionale della critica.