TFF36 – Pretenders: recensione del film di James Franco
Dopo The Disaster Artist, James Franco torna al Festival di Torino con un film sul cinema che scade nel sentimentalismo e nel melodramma.
Dopo il passaggio del suo acclamato The Disaster Artist, James Franco torna a presentare il suo ultimo film al Festival di Torino, augurandosi probabilmente di poter racimolare i primi consensi, come accadde con la presentazione dell’opera sul making off cinematografico del film più brutto che sia mai stato realizzato. Ma è stato in grado, questa volta, di eguagliare la chiarezza narrativa, lo stile registico modesto, eppure personale e fotografico, e gli obiettivi di successo che spingevano Tommy Wiseau e il suo amico e collaboratore Greg Sestero a dedicarsi al duro mestiere del cinema?
Pretenders sfiora consistentemente tali possibilità, ma sceglie di deviare il proprio racconto per diventare un ingarbugliato e straboccante melodramma, dove il professionismo, il sentimentalismo e i rapporti di fratellanza vengono ammassati tutti in un’unica opera, che dichiara in apertura la propria identità per poi tradirla senza pudore con il suo procedere verso la fine.
Pretenders – Quando dal cinema si passa al melodramma
È, infatti, di arte che il film parla. Anzi, di cui il film parla per buona parte della sua durata, fin quando non sceglie – rovinosamente – di voler trattare anche altro. Il riempirsi di complicazione, che non rendono il film una scatola cinese, ma piuttosto un districarsi di scelte e letti d’amore, è la voragine che più è da imputarsi al film, tanto da renderlo aleatorio. Inconsistente nella messa in relazione dei diversi personaggi e nelle correlazioni che tra questi vanno ad instaurarsi.
È il cinema che unisce i personaggi. Un incontro nella sala con le poltrone rosse davanti ad un film di Jean-Luc Godard, mentre Anna Karina, vestita da marinaretta, si dimena con buffonesca femminilità davanti alla camera da presa. Terry (Jack Kilmer) si innamora immediatamente di Catherine (Jane Levy), e Catherine si infila immediatamente nel letto di Phil (Shameik Moore). È un triangolo che, però, mantiene in vita un equilibrio, il quale permette ai tre amici di rimanere tali nonostante la fedeltà per quella donna che non poteva amare una persona sola.
Pretenders – Quando l’appassionato citazionismo diventa marasma cinematografico
James Franco e lo sceneggiatore Josh Boone non potevano scegliere titolo migliore. Fingere è la più grande abilità di cui può avvalersi il cinema, l’immedesimazione primaria che spinge ogni attore in una parte sempre nuova e rinnovata. Ma a fingere, in questo caso, sono proprio i fautori dell’opera e, insieme, il film stesso. Regista e sceneggiatore fanno credere che sarà la settima arte il centro pulsante della loro storia e così la pellicola – che vuole proprio rifarsi al suo passato analogico -, pone un velo di Maya di illusioni filmiche e echi cinematografici che, in un vortice quasi adolescenziale e volubile, va perdendo quella che doveva rivelarsi la purezza dell’omaggio e del citazionismo.
È, infatti, eccessiva la passionalità che Franco e Boone ripongono nell’opera, un incontrollabile animo ricolmo di riferimenti ad una Nouvelle Vague che non si ritiene essere abbastanza, con in evidenza sopratutto il richiamo ai personaggi e al loro rapporto nel film Jules e Jim, ma volendo esagerare con pennellate di autorialità italiana e intrigo hitchcockiano. Un potpourri che sovrasta la nuova onda del cinema francese a cui Pretenders si rifà tanto esplicitamente, rovinando quella cartolina certamente ingenua e epidermica, ma che risultava quanto meno ispirata.
Pretenders è la chiesa cinematografica che vuole racchiudere al suo interno un sostanzioso numero di culti. È l’idealismo che rimane impalpabile e non riesce ad oltrepassare i propri miti. È il cinema che rimarrà sempre infatuazione, ma è saperlo plasmare e renderlo consistente il vero atto d’amore.