Provaci ancora, Sam: analisi filmica del capolavoro di Woody Allen
La fitta nebbia avvolge l’aeroporto di Casablanca. Rick (Humphrey Bogart) sta dicendo addio a Ilsa (Ingrid Bergman). Il pubblico in sala è impassibile, rapito dalle atmosfere noir di una scena senza tempo, di un capolavoro, impresso ormai nell’immaginario cinematografico comune, nella mente e nel cuore di intere generazioni. Play it again, Sam. As time goes by è la celeberrima frase rivolta dalla splendida Ingrid Bergman al pianista del Rick’s Cafe, in una delle scene più note al grande pubblico cinematografico, tanto da diventare di uso comune nel linguaggio quotidiano, e da dare il titolo alla tanto apprezzata pièce teatrale portata in scena da Woody Allen, nel non lontano 1969 a Broadway, da cui è tratto l’omonimo adattamento cinematografico, Provaci ancora, Sam, diretto da Herbert Ross, conosciuto soprattutto per il film Footloose, e brillantemente interpretato dallo stesso Woody Allen.
Provaci ancora, Sam (1972) si configura, fin dal primo fotogramma, come uno spassionato omaggio a due miti senza tempo, uno dei classici cinematografici più celebri di sempre, Casablanca (1942) diretto da Michael Curtiz, e una indiscussa stella del panorama cinematografico mondiale, colui a cui generazioni, non soltanto di attori, si sono da sempre ispirate, Humphrey Bogart.
Ed è proprio nel fascino misterioso di Bogart che Sam Felix (Woody Allen), nevrotico ed impacciato critico cinematografico, ricerca quella sicurezza che non ha mai posseduto, soprattutto in campo sentimentale. In seguito al divorzio con la moglie Nancy, Sam ha continue visioni allucinatorie del suo eroe cinematografico, Bogart, a cui chiede consigli per uscire dalla propria apatia esistenziale, finendo per (fingere) di comportarsi come lui, per non fare i conti con la solitudine della propria esistenza. Sarà l’amore per la moglie del suo miglior amico, Linda (Diane Keaton) ad aprire gli occhi a Sam, rendendolo cosciente che il segreto sta nel non essere te, ma me! e, come il protagonista di Casablanca dovrà scegliere tra amore e lealtà, anche Sam prenderà ben presto la sua decisione (Ho aspettato tutta la vita l’occasione di poter usare le parole di Casablanca).
Deliziosa commedia romantica interamente giocata sul ben strutturato parallelo-parodia con il classico senza tempo, Casablanca, all’insegna del buonumore e dell’esilarante comicità, in grado di equilibrare con estrema maestria, in pieno “stile Allen”, realtà ed emozione, verità e fantasia, comicità e profondo amore per il cinema. Attraverso la figura del goffo e apatico Sam, Allen e Ross portano alla luce le infruttuose insicurezze e le paralizzanti paranoie dell’intero genere umano che, nella paura di rivelare il proprio io, si nasconde dietro a miti stereotipati, e comuni archetipi culturali, indossando così una maschera che lo cela al mondo, ma ancor di più a se stesso, impedendogli di comprendersi e amarsi per ciò che realmente è, in tutte le proprie debolezze e imperfezioni che lo rendono pur sempre se stesso, cosa che nessuna maschera, nessun travestimento, nemmeno quello di Bogart, sarà mai in grado di fare.
Il vero e proprio punto di forza che si cela dietro a questo piccolo gioiello cinematografico, un vero e proprio classico nel suo piccolo, è la straordinaria capacità di esprimere temi esistenziali con abile umorismo, ironia allo stato puro, che analizza nelle più quotidiane implicazioni le debolezze e le frustrazioni del genere umano, il pericolo di rimanere per sempre oscurati dal modello a cui si cerca disperatamente di assomigliare, perdendo la propria identità o non trovandola mai veramente.
L’opera diretta da Ross, si presta a diverse letture, tra cui quella di vero e proprio manifesto della passione cinefila che da sempre caratterizza Woody Allen, l’ennesima pura ed intima dichiarazione d’amore all’eterna poesia in immagini che è il cinema, quella “fabbrica dei sogni” in grado di creare mondi, situazioni e personaggi che toccano così nel profondo l’animo umano, da trasformarsi in vere e proprie figure mitologiche, in modelli di vita e comportamento, icone dal fascino senza tempo. Così come accadrà nel futuro La Rosa Purpurea del Cairo (1985), il cinema è visto come ponte ideale, una linea diretta tra realtà e finzione, capace di trasportare lo spettatore lontano anni luce dal luogo in cui si trova, in mondi fantastici, incantati ed esotici, facendogli dimenticare, anche se per poco, la realtà della propria vita.
In Provaci ancora, Sam, non a caso, si riscontrano a livello embrionale tutti quei leitmotiv stilisti e tematici che ,già con Io e Annie (1977), esploderanno con tutta la loro forza fino a trasformarsi nell’ossatura delle future opere di Allen, psicanalisi, malessere interiore, crisi di coppia, nevrosi e tagliente ironia, perché in Sam, così come sempre accade in ogni personaggio interpretato e delineato dal regista newyorkese, è nascosto un po’ dell’Allen impacciato, ipocondriaco, disilluso ma speranzoso.
Nonostante Woody Allen sia solo l’interprete principale, il suo tocco personale emerge dal film in ogni gesto, in ogni movenza, in ogni espressione, nelle sembianze di una (auto)ironia affilata e devastante, rocambolesche gag, bizzarre situazioni tragicomiche e nella visione critica e reale della società contemporanea, vittima di una profonda crisi di identità, alienata nei miti culturali e nei moderni archetipi. Allen e Ross, attraverso il nascondersi/alienarsi del protagonista nell’immagine fantasmatica di Humphrey Bogart, sembrano voler spingere l’uomo contemporaneo a distinguersi dagli illusori ed evanescenti modelli di presupposta perfezione imposti dalla società che bombardano costantemente mente e coscienza dell’uomo.
Provaci ancora, Sam si apre e si chiude con una diretta citazione, un cordiale e delicato omaggio a quel grande capolavoro che è Casablanca, la cui aurea è rintracciabile all’interno dell’intera opera, ma ancor di più al suo indiscusso protagonista, a quell’eroe-antieroe che è Humphrey Bogart.
Il grande cinema del passato, ma ancor di più il cinema contemporaneo non manca di omaggiarlo, mostrando, attraverso piccoli gesti un pò di quel “Bogey” di cui cinema e spettatore si sono innamorati e che non riescono più a lasciar andare, perché, quella dell’attore dall’inconfondibile volto statuario, non è soltanto una figura, un archetipo da imitare, ma un vero e proprio mito, una leggenda cinematografica, un culto vero e proprio, indiscusso emblema dello star system hollywoodiano, celebrato e osannato da critica e pubblico fino a renderlo un mito nell’immaginario collettivo di più generazioni. Come non rintracciare il suo inconfondibile ghigno, o la sua abitudine di fumare la sigaretta a mezza bocca, nell’immagine di Michel Poiccard (Jean- Paul Belmondo) in Fino all’ ultimo respiro capolavoro godardiano che cela dietro l’enigmatico volto del suo protagonista, l’immagine di moderno gangster anti-eroe di cui lo stesso Bogart è da sempre l’emblema.
La sua espressione dura, intensa, statuaria racchiude al suo interno una parte importantissima del mondo cinematografico, l’intera storia del cinema è ascrivibile a quel volto contratto nella sorriso tipico del gangster, nell’atto del fumare o del guardare con estrema intensità una donna. Gesti piccoli, insignificanti, movenze del volto quasi impercettibili, che hanno reso l’uomo un MITO.