Pulp Fiction: recensione del capolavoro di Quentin Tarantino
Pulp Fiction è un film di Quentin Tarantino del 1994 con Samuel L. Jackson, Bruce Willis, Tim Roth, Uma Thurman e John Travolta, premiato con la Palma d’oro a Cannes e l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale.
C’era una volta un boss, la moglie del boss, un pugile, due rapinatori e due gangster le cui esistenze si coniugano e si elidono come numeri opposti o colori complementari.
La storia per come viene mostrata attraversa le vite di due rapinatori che decidono di derubare un ristorante, prosegue con Jules e Vincent che vanno a recuperare la valigetta di Marsellus, il loro capo; cambio di scena e ci troviamo con Butch e Marcellus a dialogare su un presunto incontro di pugilato che dovrà perdere.
Vincent che comprerà dell’eroina prima di uscire con la moglie di Marsellus, Mia e che la stessa scambierà per cocaina finendo in overdose. Unico flashback all’interno della pellicola in cui a Butch da bambino viene affidato l’orologio di suo padre e che poi la sua ragazza dimenticherà accidentalmente nel suo appartamento; Butch vince l’incontro ma si scontra con Marsellus per strada. Ritornano Vincent e Jules che dopo il lavoretto della valigetta uccidono un ragazzo in macchina senza volerlo, puliscono la macchina, tornano alla base e vanno a fare colazione nella caffetteria che a breve sarà rapinata dalla coppia iniziale.
Pulp Fiction è un racconto a spartiti, in cui ogni strumento suona un proprio motivo concorde e armonizzato alla trama principale, in cui nonostante fabula e intreccio siano scombinate, la narrazione rimane fluida e comprensibile, ogni personaggio, anche quelli di accompagnamento, hanno la loro temporalità li dove la stessa narrazione ne è frammentata.
Si può asserire che le storie principali sono tre, Butch e l’orologio, Vincent e Jules alle prese con la valigetta e Vincent e Mia a spasso per Los Angeles. Esse sono armonizzate in modo che rimbalzino all’interno della pellicola interconnesse da incidenti, senza perdere una propria linearità, un proprio senso, un tempo in cui esprimersi, in cui ogni storia ha il suo progresso, il suo dilemma, una storia nella storia, una linea in un ovale che definisce le parti e le rende a senso unico, dilazionate e disordinate ma cronologiche in termini assoluti.
Pulp Fiction: un racconto a spartiti, in cui ogni strumento suona un proprio motivo
Le storie si possono dividere in tre categorie:
Parola di (d)io, Cibo Violento e Metallo non Metallo.
Affrontiamo la prima.
Nella categoria Parola di (d)io parliamo di Jules e Vincent e di come essi non sono determinati da grandi valori, anzi sono totalmente vuoti di ogni significato. Jules cita un passo erroneo della Bibbia come un ripetitore, senza capire cosa sta pronunciando, non ha alcun senso per lui, quelle parole sono sconnesse dall’idea che portano avanti, il senso delle cose non lo da un valore, una tradizione ma la parola di Marsellus per cui ciò che dice è vero, ogni suo volere è al di sopra di tutto: quella valigetta deve tornare nelle sue mani, ergo ha un valore, il cui contenuto è tenuto segreto ma non importa sapere cosa c’è dentro, conta che il capo la rivuole indietro e questa è l’unica cosa che conta veramente.
Stessa identica cosa vale per Mia: Vincent è assolutamente disperato perché Mia in quanto moglie di Marsellus è in fin di vita, non gli interessa altro, la cosa non va al di la di ciò che è, non tiene a lei né al valore della sua vita, Mia acquista un valore perché interconnessa al valore più alto per antonomasia.
Gli unici valori, le uniche tradizioni che vengono perpetuate e mitizzate all’interno della pellicola sono le icone pop, sono quelli i punti di riferimento, effimeri e decadenti.
Ciò ci porta a rapportarci con la questione del linguaggio, un linguaggio piuttosto bislacco. Vengono prodotti i discorsi più assurdi sul modo di pronunciare un panino, sul sistema metrico, sul nome Butch che non significa nulla come tutti i nomi americani, e ancora più esemplare è quando Butch insiste nel sottolineare che lamoto che ruba a Zed è un chopper.
Ecco, la lingua è figlia diretta dell’esperienza, delle tradizioni, e tutto ciò in Pulp Fiction trascende ogni valore, perde qualsiasi significato, non c’è nessuna autorità, nessun codice che determini il significato delle cose, nessuno che giudichi, nessun criterio, e in loro assenza c’è la cultura pop a arpionare le menti, coni suoi simboli e il suo slang, unico modo per Jules e Vincent, per Mia e per Butch di potersi capire.
Il momento di lucidità di Jules è legato proprio a questo: Jules ha sempre preso in considerazione la parola di Marsellus come l’unica, la prima, quella da rispettare, in cui c’è solo la forma ma non la sostanza delle cose, quindi se una cosa era detta da lui, era giusta e avrebbe giustificato ogni azione. Ma se così non fosse? E la parola di Marsellus non fosse la parola di Dio? E lui fosse il cattivo perché il mondo è cattivo, e ora si trasformando nel pastore che potrebbe salvarsi e salvare la vita al rapinatore?
Jules attraversa un cambiamento e quella sorta di miracolo lo mette dinanzi ad una verità empirica e dialettica.
La seconda categoria è determinata dal cibo (violento).
In Pulp Fiction il cibo è essenziale e profetico, viene usato simbolicamente e tragicamente in molte situazioni: per sfidare e creare tensione nell’appartamento dei ragazzi, Jules è l’artefice di un tormento incessante che li porterà ad un omicidio dopo l’altro. Mia e Vincent quando si siedono nella loro splendida Cadillac non si sottraggono alla spettacolarizzazione di un pezzo di carne che dovrà grondar di sangue per poter essere apprezzato, è violenza e potere, preludio della sua overdose.
Quando Jules fa colazione con Vincent, in seguito al miracolo al quale dice di aver assistito, non mangia più carne, è un uomo differente, conscio del suo ruolo nel mondo decide di non perdere il controllo e di lasciare andare i due rapinatori di negozi di liquori evermore, non è più un violento, non uccide. Quando Marsellus incontra per strada Butch tiene in mano una scatola di ciambelle e del caffè, i due si scontreranno e finiranno nel covo di due sadici sodomiti. ll cibo diventa presagio di qualcosa, di morte, di umiliazione, di vendetta. Ma non solo.
Il metallo non metallo è legato al concetto delle armi, ma anche all’orologio di Butch.
La pistola è un prolungamento delle figure dei protagonisti, sono delle protesi, hanno un loro movimento, la loro gestualità, decidono quando e se sparare, cosa colpire, quando spaventare e quando irrigidirsi, muscoli involontari letali e feroci.
L’orologio simbolicamente è un cimelio, una tradizione, un barlume di significato lo sottende, ma il modo in cui esso è stato tramandato, di padre in figlio passando per lo sfintere di due uomini, è determinante a svuotare di ogni senso questo simbolo.
La tradizione non ha senso di esistere perché non ha una referenza, non ha niente a cui attecchire, come il passo della Bibbia citato da Jules, è solo violenza giustificata e sostenuta da parole vuote perché non c’è niente e nessuno a darle spessore.
Per Tarantino la violenza, il suo modo di esporla è un modo per rendere il più normale la scena che si sta andando a rappresentare, la violenza viene attuata come componente di disciplina, nessun climax, nessuna suspance, è la chiave senza essere realmente centrale.
La particolarità dei suoi personaggi è che questi presunti gangster, spietati e assoggettati al volere di Marsellus, sono svestiti di ogni aurea pseudo eroica e non sono degli esseri scelti per il loro talento omicida, sono uomini qualsiasi che lavorano come killer, questi bravi manzoniani sono ritratti nelle vesti di gente che lavora, balla, ride, viaggia mentre al contrario noi, la gente comune, quelli che dovrebbero essere i presunti normali sono dei sadici torturatori, curiosi di sapere cosa si prova ad uccidere o peggio a farlo senza esserne minimamente scalfiti.
Tarantino lavora ed opera sul concetto di normalità dal punto di vista sociale e non personale, sapendo perfettamente che la stessa Nouvelle Vague compose l’iconografia del gangster con la tragicità dell’essere umano e senza mitizzazione alcuna.
Ma da essa lui parrebbe partire continuando la sua opera enfatizzando sempre e solo i gesti più trascurabili, il semplice mangiare è un rito lento e che viene spesso proposto anche solo sotto forma dialogica, quando Vincent uccide Marvin è un caso, e di conseguenza non è il caso di farne una tragedia. Lo stesso Vincent viene freddato con il fumetto Modesty Blaise tra le mani all’uscita della toilette e il modo di uccidere è sempre lo stesso, veloce, immobile, senza grande preparazione, l’unica scena realmente tachicardica avviene quando Butch scappa da Marsellus, la stessa cinepresa rimbalza da un lato all’altro, in piena crisi, come se rischiassimo tutti, il film stesso, andando contro Marsellus.
L’elemento normalizzante attraversa la violenza andando oltre, rendendo innocuo il concetto della morte.
Il cinema di Tarantino avvicina il pubblico al mito, alla sublimazione della morte, cosicché le immagini diventino il rituale di un destino e non il quesito su quale esso sia, non c’è tabù sulla morte filmica di un personaggio, anche perché con la sua (de)struttura Tarantino è come se riportasse in vita Vincent, l’unico protagonista a cui tocca morire, mostrando dopo ciò che cronologicamente avviene prima.
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Le sequenze assenti di una logica temporale fanno sì che al pubblico arrivino prima le risposte e poi il quesito da porsi, con la sua costruzione da romanzo, con i personaggi che entrano ed escono, con le loro redenzioni e i paradossi, gli antipodi che si incrociano diventa un parametro della modernità, il suo è un cinema narrato col sangue al posto dell’inchiostro e col sorriso che opacizza l’etica, semmai fosse realmente presente una qualche etica.
Pulp Fiction non è determinato da discorsi poi così assurdi, assurdi per dei gangster, per il prototipo così poco parodistico al quale siamo stati abituati, considerando che questi malavitosi parlano di cose frivole, come chiunque, mangiano, vanno al bagno e anche spesso, proprio perché Tarantino vuole che ci si riappropri di una ordinarietà che per i soggetti in questione prima non era contemplata, anzi risultava dissonante e poco credibile.
Il riciclaggio puro al quale si assiste, senza osare troppo nel dire, è figlia del riutilizzo della narrativa truce, rudimentale avvolta da una comicità misurata in provette di puro sangue rappreso.
Pulp Fiction è un mosaico, costruito e ricucito come un romanzo
Il montaggio è saldato in modo manieristico ma conserva la sua logica, è tutto ben visibile, un modo di assemblare cartacce, materiali poveri con gli epigoni e i topoi filmici in un lavoro di contaminatio che mostra tutto ciò al quale egli si ispira senza però lasciarlo al caso, inserisce le sue perle, i suoi ispiratori tra le pieghe della narrazioni, presenti senza dar fastidio, distinguibili ma non sovrapponibili al suo racconto.
Pulp Fiction è un mosaico, costruito e ricucito come un romanzo, un manufatto preistorico colmo d’ogni genere, da quello western, a quello hard boiled, al noir, alla commedia, ma riformato e ripulito dalla ruggine e portato su pellicola spoglio delle convenzioni arcaiche alle quali si è abituati: se c’è una cosa che si può affermare di Pulp Fiction è che una pellicola senza identità, ma attenzione non anonima, semplicemente non ha una classe di appartenenza, non ha una specie o un orizzonte di genere.
Non è classificabile. Il che la rende difficile da inquadrare, incollocabile, non avrà mai lo scaffale adatto che la possa contenere e non avrà mai sufficienti parole da poterla definire.