Pupazzi senza gloria: recensione del film con Melissa McCarthy
Un torbido caso di omicidio, nella soleggiata Los Angeles: è stata compiuta una strage di innocenti marionette. L'indagine viene affidata all'umana Connie Edwards e al pupazzo Phil Phillips, ex poliziotto tormentato e disilluso...
Pluri-candidato ai Razzie Awards 2019 (i cosiddetti anti-Oscar, che premiano con spirito goliardico i peggiori film americani dell’anno), Pupazzi senza gloria è stato un gigantesco flop al botteghino, quello che in patria viene chiamato in modo tanto pittoresco quanto efficace box-office bomb. Un insuccesso forse annunciato, viste le premesse: il film è un live action che vede protagonisti sia umani che marionette, ambientato in una Los Angeles brutta, sporca e cattiva – in perfetto stile noir – in cui nulla è come sembra e tutto è per definizione sopra le righe.
Non un’opera per adulti, verrebbe da dire, vista la presenza morbidosa dei pupazzi; ma neanche una pellicola per bambini, perché il punto di partenza è una sorta di iper-realismo sboccato e pompato fino alle estreme conseguenze, in cui tutti i personaggi mostrano il lato peggiore di sé esibendo la propria maleducazione e le loro peggiori perversioni. A rappresentare questo piccolo universo distorto sono i due protagonisti Connie Edwards, detective in carne e ossa, e Philip Phillips, oggi investigatore privato ma un tempo primo pupazzo assunto dalle forze dell’ordine.
Pupazzi senza gloria: tale padre… tale figlio?
Il noir, dicevamo, o per meglio dire l’hard boiled: raccontando di un serial killer e/o di un gruppo criminale che stermina apparentemente senza ragione tutti i peluche che incontra, Pupazzi senza gloria snocciola tutti i cliché tipici del genere: un poliziotto solitario e disilluso dal linguaggio colorito e gergale, una dark lady/femme fatale che entra improvvisamente in scena scompaginando le carte in tavola e un’ambientazione metropolitana e malfamata in cui si riflettono gli stati d’animo dei personaggi principali.
Dietro la macchina da presa, a tirare le fila di questa oltraggiosa e curiosa operazione, un nome per nulla casuale: Brian Henson, figlio del creatore e burattinaio dei primi originali Muppet (nonché regista del mai dimenticato Labyrinth – Dove tutto è possibile), Jim Henson. Alla dolcezza e all’ingenuità dei vari Kermit la Rana, Fozzie Bear e Miss Piggy, corrispondono qui la trivialità e la veracità di – pescando dal mucchio – Grullo, senzatetto drogato di zucchero che muore per overdose di saccarosio, Vinny, che gira film a luci rosse nel retro del suo sexy shop e Larry, che si fa candeggiare la pelle blu per assomigliare il più possibile agli umani.
Pupazzi senza gloria: Chi ha incastrato Phil Phillips?
Se la comicità e l’irriverenza sono quelle tipiche degli sketch del Saturday Night Live (e la presenza nel cast di Maya Rudolph, Elizabeth Banks e della stessa McCarthy sembrano essere molto più di un indizio), Pupazzi senza gloria segue inevitabilmente la scia grottesca e provocatoria di Ted, l’orsacchiotto alcolizzato e sessuomane ideato da Ted MacFarlane, e di Sausage Party – Vita segreta di una salsiccia, il cartone animato esplicito e scurrile scritto da Seth Rogen e Jonah Hill che nel 2016 scandalizzò il pubblico dando vita agli alimenti in vendita in un supermercato.
Tuttavia, la trama rimanda all’ormai mitologico Chi ha incastrato Roger Rabbit di Robert Zemeckis, che per primo nel 1988 ibridò realtà e fantasia (cioè esseri umani e cartoon) indagando su un caso che aveva a che fare con il torbido che si cela dietro l’industria dello spettacolo. Come accade in Roger Rabbit, anche in Happytime Murders i caratteri più complessi sono assegnati ai non-umani: è vero, anche l’agente Connie Edwards ha i propri demoni da affrontare (così come ce li aveva Eddie Valiant), ma l’introspezione e l’approfondimento poggiano tutte sui demoni che tormentano Phil Phillips e la combriccola che gli ruota attorno. Sono le persone ad essere delle caricature, non i pupazzi.
La legge (non) è uguale per tutti
Per quanto si resti dichiaratamente e orgogliosamente sul registro della comicità e della demenzialità, Pupazzi senza gloria si permette anche di affrontare alcune tematiche sociali scottanti e di stringente attualità, sempre attraverso il grimaldello della satira e dei doppi sensi. In cima alla lista c’è il razzismo, perché in questa Los Angeles alternativa, nonostante la legge sia uguale per tutti, i puppets sono comunque discriminati e trattati con diffidenza (ogni allusione ai conflitti fra bianchi e afro-americani non è puramente casuale).
In questo campionario morbidoso e pupazzesco, che mescola l’alto dei riferimenti alla contemporaneità e il basso della gag da avanspettacolo e che per gli stessi motivi può risultare imbarazzante e respingente per i detrattori ed estremamente divertente e irriverente per gli estimatori, spicca anche una azzeccata scelta per il doppiaggio: in italiano la voce del protagonista è affidata a Maccio Capatonda, che porta con sé buona parte del repertorio parodico e nonsense che l’ha reso famoso in questi anni. E allora diciamolo: “Questa è una gabbia di matti, c’è da uscire pupazzi!”.