Quattro vite: recensione del film di Arnaud Des Pallières
La recensione di Quattro vite di Arnaud Des Pallières, con Adèle Haenel e Adèle Exarchopoulos.
Si cresce, si cambia, si può persino diventare persone diverse tra loro, ma il passato fa sempre parte di noi, nel bene e nel male. Nel male, soprattutto, per quanto riguarda Quattro vite (Orpheline), film del 2016 di Arnaud Des Pallières la cui uscita, prevista inizialmente per il 27 agosto 2020, è rimandata a data da destinarsi.
Con un inizio spiazzante e quasi da thriller, Quattro vite introduce la figura di Renée (Adèle Haenel), un’apparentemente tranquilla insegnante di scuola elementare la cui quotidianità subisce una scossa quando varca la porta della sua classe Tara (Gemma Arterton), una misteriosa donna appartenente al suo passato. Il film prende tuttavia una piega inaspettata quando, anziché rispondere al canone cui sembra inizialmente aderire, comincia a ripercorrere a ritroso la vita della protagonista.
Renée, come si scopre, è anche Sandra (Adèle Exarchopoulos), ma è anche Karine (Solène Rigot) e Kiki (Vega Cuzytek). Le “quattro vite” del titolo sono infatti quelle vissute da lei, quattro fasi della sua crescita – dall’infanzia fino all’età adulta – che in comune hanno poco: la sofferenza della protagonista, il suo disagio e la minuziosità con cui lo sguardo del regista ricostruisce ciascuna delle sue personalità.
La regia di Des Pallières riesce infatti nell’intento di analizzare quasi scientificamente quelle che a tutti gli effetti sono le quattro protagoniste, sebbene il loro futuro confluisca in un’unica persona, con un approccio privo di moralismo: come osservandole dietro un microscopio, Renée, Sandra, Karine e Kiki vengono ritratte la crudezza che meglio si addice alla loro storia.
Particolarmente interessante è la scelta di cominciare dall’età adulta, e di esplorare a ritroso le quattro vite della protagonista lasciando per ultima l’infanzia: così facendo, Des Pallières infila lo spettatore in un climax che solo alla fine svela l’origine di una tale vita sregolata, fatta di sesso e violenza, ma anche di patriarcato e mascolinità tossica. Sarebbe stato più semplice mostrare il punto di rottura, poi illustrarne le derive: qui al contrario l’infanzia rubata è la fine della corsa, una corsa che, fino alla fine, aggiunge nuovi tasselli utili per la comprensione della psiche della protagonista.
Le quattro interpretazioni di Haenel, Exarchopoulos, Rigot e Cuzytek sono il vero cuore, insieme a una regia particolarmente ispirata, di Quattro vite. La scelta delle interpreti è logica e allo stesso tempo audace: se da una parte era necessario differenziare le diverse “vite” dal punto di vista anagrafico, dall’altro fa riflettere come tre delle quattro attrici protagoniste siano quasi coetanee. L’adolescenza tormentata della protagonista, incarnata nella persona di Karine, giustifica infatti la scelta di un’attrice (Rigot) ben più grande dell’età interpretata – e, allo stesso tempo, la decisione di affidare alla Exarchopoulos, un anno in meno della Rigot, il ruolo della giovane adulta Sandra non fa che enfatizzare la fragilità della protagonista in un mondo spietato, che la vorrebbe costantemente più adulta di com’è realmente.
Quattro vite non è un film semplice, né leggero. Prende una persona, la inquadra nella sua ritrovata apparente normalità, poi ne scompone l’intera esistenza fino a ridurla a quattro distinte personalità, tutte collegate tra loro e tutte scaturite da una bimba, la cui infanzia è stata negata. Una buona prova di regia, sceneggiatura e recitazione, per un film certamente non agevole, e mai indigesto, ma assolutamente interessante.