Queer: recensione del film da Venezia 81
Il film di Luca Guadagnino, con protagonista Daniel Craig, presentato in concorso all'81ª edizione del Festival di Venezia
L’amore, la perdita, la solitudine, il viaggio, è lo stesso Daniel Craig a definire i temi sviscerati da Queer, il film di Luca Guadagnino con protagonista l’ultimo James Bond, presentato in concorso all’81ª edizione del Festival di Venezia. Una delle pellicole più chiacchierate e divisive, tra quelle proposte in Laguna quest’anno, è quella che arriva a qualche mese di distanza dall’uscita di Challengers, il precedente del cineasta italiano sul mondo del tennis e sull’amore tripartito. Ispirata all’omonimo romanzo breve di William Burroughs del 1985, la pellicola scritta da Justin Kuritzkes – autore anche dello stesso Challengers – è uno dei cinque titoli italiani a concorrere per il Leone d’oro, alla quarta partecipazione del regista palermitano dopo A Bigger Splash, Suspiria e Bones and All. Prodotto da The Apartment, Fremantle, Frenesy Film Company, in collaborazione con Cinecittà e Frame by Frame, il film vede co-protagonista il giovane Drew Starkey (Outer Banks, Le strade del male) e la partecipazione di Jason Schwartzman e Lesley Manville.
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Queer: il percorso della soddisfazione di una necessità
1950, Città del Messico, William Lee (Daniel Craig) è un espatriato americano che costantemente dedica le sue giornate alla perdizione, ad una vita intossicante con cui cerca di combattere la solitudine di cui non riesce liberarsi. L’uomo tenta di soddisfare i propri desideri e bisogni carnali (che apertamente dimostrano un insaziabile bisogno d’amore) passando al setaccio i bar frequentati dai connazionali americani e, in particolare, dalla comunità gay, alla ricerca di giovani e avvenenti compagni per le sue notti – con gli affetti ridotti all’unica relazione amicale con l’eccentrico Joe (Jason Schwartzman). La ciclica esistenza di Lee, annebbiata dalle boccate di sigarette e dalle bevute di tequila, viene presto sconvolta dall’arrivo di Eugene Allerton, studente di cui si infatua a prima vista.
Il rapporto tra i due comincia proprio da un gioco di sguardi e lentamente si trasforma nella manifestazione delle impulsive necessità di un uomo completamente sovrastato dal proprio desiderio, che si trova a confrontarsi con le incerte risposte di un ragazzo taciturno e provocatorio, presente in maniera scostante e responsivo solo in parte dell’amore riversatogli da William.
Al centro del racconto vi è il viaggio in Sud America intrapreso dai due, alla ricerca della Yage, droga comunemente nota come Ayahuasca e, a detta del protagonista, dotata di proprietà telepatiche. L’allucinatorio percorso qui intrapreso porterà la relazione su un piano ancor più astrattivo e oniricamente complesso, per poi giungere sino all’epilogo della storia.
La mescolanza di corpi soli
Il film recita “queer”, il sottotitolo traduce “frocio”; l’inclusivo omosessuale diviene checca, pederasta, diviene epiteto nella sua eccezione denigratoria, ripetuto di continuo fin dalle prime battute e portato quindi ad un’eccesso che vuole scardinarlo dalla sua politica scorrettezza. Tale premessa vuole raccontare una sessualità ed un sentimento che, mostrati in tutto il loro erotismo e in tutta la loro bramosia, rimangono assoggettati ad una solitudine inquinante e vengono vissuti in modo proprio, quasi timorosi di manifestarsi e di aprirsi, se non al raggiungimento dell’agognata intimità con l’altro.
L’ossessione del protagonista per la Yage è dovuta proprio alla necessità di penetrare l’altro in maniera mentale oltre che fisica (concetto raccontato dalla scena registicamente più forte ed affascinante dell’intera pellicola) e di ottenere quella necessaria rassicurazione in grado di rispondere alla propria fragilità interiore, una fragilità che lo consuma e che lo fa vivere nel dubbio e nella confusione. Un viaggio all’interno dell’altro per poter esplorare le parti più remote di sé, rispondente di quell’intimistica infermità mostrata per tutta la prima parte dell’intreccio.
Queer: valutazione e conclusione
Luca Guadagnino, con Queer, osa come forse non aveva mai fatto: qualche interessante trovata registica, di vago richiamo al suo Suspiria – come quella sopra citata, che dipinge astrattamente la mescolanza dei corpi – si unisce alla valenza tematica che riprende, in parte, l’acclamato Chiamami col tuo nome, ponendosi come punto di partenza di un film che ha voluto spingersi oltre. Un’opera che il regista voleva realizzare da tempo e che arriva ad un buon momento della sua maturazione, ma che convince solamente in parte e che conquista solamente alcuni. L’esplicitato omaggio al cinema di Powell e Pressburger (Scarpette rosse, Narciso nero), contemporanei degli anni in cui l’opera è ambientata, va certamente riconosciuto come merito ma deve portare ad un approfondimento, a fare due passi indietro e chiedersi cosa non funzioni, cosa manchi a questo film.
La scrittura esaspera molti aspetti e, pur raccontando un’interazione forte, non riesce a rispecchiarla nel rapporto tra il pubblico e lo schermo, cadendo soprattutto nel definire il personaggio Allerton, poco credibile, inverosimile, accettabile nella sua intenzione metaforica ma non nel suo essere contraltare del protagonista. La resa, nel suo complesso, evidenzia una ricercata astrattezza e uno smaccato simbolismo che spesso dimenticano di tradursi nel concreto e che vengono salvati principalmente dall’eccezionale prova di Daniel Craig, al suo apice, alla sua miglior interpretazione perché, invece, estremamente credibile, tangibile: ogni suo gesto è percepito sino alle ossa, ci scorre nel sangue, fumiamo con lui, beviamo con lui, sudiamo con lui (ottima anche la prova di Jason Schwartzman).
La contestualizzazione scenografica (Stefano Baisi), realizzata in gran parte negli studi di Cinecittà – al pari della fotografia di Sayombhu Mukdeeprom – è anch’essa da applaudire e fa da contenitore ad un’opera che va certo riconosciuta come importante e di dibattito, ma che, con la possibilità di penetrare un argomento da sentire addosso, viene frenata troppo spesso dal vanesio manifestarsi di una ricercatezza stilistica che non avvicina.