Raya e l’ultimo drago: recensione del film Disney
Dal 5 marzo su Disney+, ma con accesso vip, Raya e l'ultimo drago è il nuovo film Walt Disney Animation. Grandi ambizioni ma poco cuore, ecco perché Raya poteva essere di più
Raya è l’ultimo drago copre un gap di quasi cinque anni dall’ultimo lungometraggio d’animazione originale Disney. Dopo Oceania, con cui Raya condivide la produzione, solo sequel. Due per la precisione: Ralph spacca Internet e Frozen II. Alla guerriera e al suo fido compagno (un armadillo gigante davvero carino) l’arduo compito di introdurre nuovi protagonisti e atmosfere nel mondo della regina d’animazione. Per farlo, come Oceania, si cercano terre e tradizioni. Raya e l’ultimo drago è infatti il primo film Disney ambientato in un mondo a immagine e somiglianza della cultura del Sudest asiatico.
Atlante in mano, i Walt Disney Studios stanno passando in rassegna ogni angolino terrestre. Obiettivo: coprire le lacune di una narrazione per troppo tempo occidentalizzata. Ma come riferito ai giornalisti in conferenza stampa, quel che importa è la storia. Il resto viene da sé, come in Oceania. Oppure no, come in Raya e l’ultimo drago.
L’ultimo film Disney è un coacervo di stimoli, idee e ambizioni. Ma tutto senza cuore. L’avventura c’è, ma non si sente. Viaggiamo in cinque terre leggendarie senza sentirne la profondità. Gli stessi protagonisti sono comparse, figurine che avanzano nel gioco. E di gioco viene da parlare per una struttura a quest. Ma più che un invito a partecipare, come potrebbe essere senza necessariamente svalutare il valore del film, Raya e l’ultimo drago è un gameplay. Non siamo noi a impugnare il joypad. Assistiamo, distanti. Quando poi nemmeno un drago – un po’ troppo simile a un mylittlepony – aiuta a tenere alta l’attenzione, qualcosa sembra davvero non funzionare.
Raya e l’ultimo drago racconta un mondo diviso
Ma cosa racconta Raya e l’ultimo drago? Un mondo traumatizzato, segnato da una tragedia che ha separato i regni di Kumandra in regioni sempre più piccole e isolate nelle proprie specificità culturali. Nel prologo che apre il film percepiamo un respiro epico: in tecnica tradizionale mista cut-out veniamo introdotti al mondo di Raya. Ma nel fiorire di colori e habitat si è abbattuta una calamità. Non c’è bisogno di celare l’ovvio: sembra una pandemia. A sorprendere, più che la somiglianza con le cause, è la verosimiglianza delle conseguenze. In questo mondo diviso e avvolto nello sconforto si respira una complessità da dopoguerra. L’arrivo della calamità è l’inizio di tutto. Poi, si viaggia nel tempo sino a incontrare una Raya cresciuta e avventurosa. I fatti della tragedia anticipano il film, avvengono fuori scena, mentre in inquadratura entra la sfiducia dei sopravvissuti. Il gruppo che segue Raya alla ricerca della gemma magica cui si legano le speranze di Kumandra è sgangherato, disomogeneo. Ogni membro possiede però i ricordi di un mondo travolto dalla morte e abbandonato alle ingiustizie. In questo, Raya e l’ultimo drago è inedito. Il viaggio nelle cinque terre testimonia il lascito della calamità. Un po’ Paisà di Rossellini, per guardare in alto, un po’ Avengers Endgame, per tornare nei ranghi. Ma non basta.
A Kumandra e ai suoi eroi manca il tempo. Ci muoviamo in fretta, correndo. Al leggendario drago Susu nemmeno una sequenza di volo che possa eguagliare Big Hero 6 o Dragon Trainer. Mentre i momenti di lotta, in cerca dei riferimenti della tradizione Wuxia, il cinema cinese di combattimenti, noto in occidente grazie a maestri quali Zhang Yimou (Hero, La foresta dei pugnali volanti), resta sulla superficie di qualche rallenti ben assestato. A Kumandra manca il fascino dell’Arendelle in cui vivono Elsa e Anna. Nonostante, per estensioni e possibilità, sembri più avvincente.
Un film per tempi difficili
Raya è un’eroina insolita. Rimasta sola, deve imparare a fidarsi degli altri. Scoprire che la leggenda del drago Susu è vera non è sufficiente. La saggia ma impacciata creatura mitologica può salvare il mondo solo con l’aiuto dei suoi abitanti. L’insegnamento arriva chiaro e distinto. Per cucirlo in profondità, Raya e l’ultimo drago accende due fuochi. Da un lato Raya, dall’altro Namaari, contendente per il possesso della gemma del drago Sisu. Ma il villain è nella testa di Raya. La calamità, vero nemico senza volto, può essere sconfitto a patto che i nemici immaginari, i conflitti sociali, le distanze umane, vengano meno. Raya è chiamata ad allungare la mano, non la spada. Più che guerrieri, cittadini. Più che gruppo di eroi, comunità. Raya e l’ultimo drago è una parabola sociale ambiziosa. Eppure è inconcludente.
Le similitudini con il presente non risuonano perché assegnate a un mondo privo di appeal e a un gruppo le cui specificità sono tenute fuori dallo schermo. Cercando l’effetto compagnia dell’anello, per gli amici di Raya non si trova posto e nemmeno nome. Sono “quello grande, la bambina e l’armadillo”, più il drago. Su questo potremmo tornare. Somiglia a una lelly kelly ma con velleità da stand-up comedian. Non vola; salta sulla pioggia. Momento straordinario il primo balzo, ma ancora una volta troncato sul nascere e lasciato al nulla. Il suo carattere buffo e incerto riporta Raya alla realtà, ricordando che i miti sono stimoli che non esauriscono la complessità del vivere. Ancora una volta, un ottimo stimolo senza sviluppo.