Red Snake: recensione del film con Maya Sansa
Online sulla piattaforma Amazon Prime video dal 18 giugno arriva una storia poco conosciuta sulle donne combattenti in Iraq.
Siamo nell’Iraq Occidentale. Agosto 2014. L’Isis attacca i villaggi indifesi del territorio e con la scusa infame dell’apostasia li prosciuga di beni, armi, donne e vita. La colpa di Zara, interpretata da Dilan Gwyn, sta nel far parte di una comunità yazidi, minoranza religiosa tra le più antiche della Mesopotamia. Dopo l’uccisione di suo padre, la ragazza subisce la cattura insieme al fratellino di cui perderà subito le tracce perché venduta come moglie, o forse solo da orrendo trastullo, a un ufficiale jihadista, uno spietato Mark Ryder (visto anche nel Robin Hood di Ridley Scott). Inizia un calvario a denti stretti che la regia di Caroline Fourest racconterà parallelamente alla vita al fronte di un manipolo di guerrigliere ribelli della Brigata Internazionale, un piccolo esercito curdo sostenuto da coalizione e volontariato internazionali contro l’Isis.
Le donne soldato e la storia vera dietro il film
Opera prima impavida nel raccontare la lotta contro l’integralismo, Red Snake presenta un buon cast internazionale dove spicca Maya Sansa. Interpreta Mother Sun, soldatessa dall’istinto materno verso le sue commilitone più giovani venute dalla Francia con iniziali intenti pacifisti. Ma il fronte non è normale volontariato. Ci si addestra duramente per imbracciare i fucili, si spara, si uccide, o si viene uccise. Dietro ogni scorza di queste donne armate c’è una storia, una motivazione, un’umana fragilità, un dolore, o un ideale. A volte ognuno di tutti questi, ma le paure in queste lande piene di pericolosissimo nulla vengono soppresse da una fratellanza di ferro, munizioni e femminilità. Anzi, sorellanza.
In questa pagina cinematografica di rivoluzione sono le donne a gridare “Lunga vita al Kurdistan libero!” Femministe? Qui siamo oltre. Le nostre partigiane caucasiche cantano O bella ciao durante una marcia e indossano kefie, foulard e nomi di battaglia che porteranno fino alla fine. Che si chiami vittoria o morte. Nella camerata della brigata che impareremo ad amare, poster che raffigurano martiri di Kobane come Asia Ramazan Antar, e si leggono libri della filosofa anarchica Rosa Luxemburg. Si suona la chitarra, e gli smartphone sono vietati per concentrarsi sul combattimento, sul qui e ora, insieme alle compagne d’armi. La vera Zara si chiama Nadia Murad, irachena, oggi ha 27 anni e fu tenuta in ostaggio dallo Stato Islamico nel 2014. Dopo la fuga la sua storia ha girato il mondo, dal 2016 è la prima Ambasciatrice Onu per la dignità dei sopravvissuti alla tratta di esseri umani, e nel 2018 ha vinto il Premio Nobel per la Pace.
Red Snake e la sua regista del Charlie Hebdo
La regista, autrice anche della sceneggiatura, tinge alcune battute delle sue soldatesse di un humor nero e sfacciato nel quale si riconoscono verve e stile irriverenti tipici del Charlie Hebdo, celebre testata parigina di satira e attualità per la quale scrive la Fourest. Giornalista e scrittrice, il suo esordio dietro la macchina da presa va in cerca di emozioni forti ma non sbandierate. Per dirne una, la violenza sessuale di una scena ce la mostra soltanto in audio, dalla stanza a fianco. Il soggetto del suo film è buono, con una serie di piccoli percorsi delle eroine che finiranno inevitabilmente per intrecciarsi, ma si sviluppa con più di qualche imperfezione registica. Sebbene tante idee metaforiche siano azzeccate, alla Fourest manca ancora la pienezza dell’esecuzione.
Assistiamo a diversi scontri a fuoco, e il migliore, seppur imperfetto, esteticamente parlando, sembra proprio quello degli autoblindo nel deserto, nella prima parte. In altre situazioni action, invece, si costruiscono scene che forse avrebbero respirato più e meglio grazie a tensioni prese in prestito al western. O almeno queste sono sensazioni e aspettative disattese. Soldatesse circondate da jihadisti con il grilletto facile, la scelta più offensiva per far esplodere una granata, sono tutte azioni compiute da donne libere e forti. Una rivincita il loro grido del deserto sì, ma una ferita la guerra, la loro guerra e le motivazioni infami che ce le hanno trascinate in prima linea. Il sentimentalismo basico nel midollo autoriale del film evapora comunque in un velo di medietà anti-pulp buono per confezionare un prodotto facilmente esportabile su scala internazionale. O da prima tv su RaiUno, per intenderci. Stupire sì, colpire pure, ma senza troppi scossoni per il prezioso spettatore medio, appunto. Un esordio, insomma, senza raffinatezze nei particolari che lo avrebbero reso più visivamente incalzante, autoriale, ma anche più violento tutto sommato, quindi ben venga almeno questo passepartout per incassi interessanti su diritti televisivi in vari paesi e continenti. Ma soprattutto viva quel cinema che ad ogni modo si ostina, come le sue protagoniste, a raccontare storie inedite di donne eroiche e fuori da modelli e immaginari ordinari.