Rifkin’s Festival: recensione del film di Woody Allen con Louis Garrel

Woody Allen torna in sala dal 6 maggio 2021 con Rifkin's Festival, un omaggio al grande cinema attraverso la lente sfocata di un uomo sull'orlo della terza età. 

I festival del cinema non sono più come una volta. È cosi che Woody Allen inaugura il ritorno in sala, portando sullo schermo la sua ultima opera, Rifkin’s Festival, una lenta catarsi nelle intuizioni, aspettative e debolezze di un protagonista tanto maturo quanto esistenzialmente vergine. Forte del consueto humour, l’opera del regista è un manuale di cine-ismo, un encomio nostalgico al grande cinema che Mort (Wallace ShawnManhattan, Melinda e Melinda) recupera e riadatta agli eventi della sua vita in chiave del tutto personale, lungo un percorso fotografico che lo vuole protagonista di un sogno ad occhi aperti. In questo alternarsi dinamico di siparietti comici e riflessioni sull’amaro avanzare della senilità, Woody Allen eleva a potenza le virtù del cinema, esaltandone l’energia afrodisiaca e denunciando quell’ipocrisia aurea di retaggio hollywoodiano che, forte del suo megafono collettivo, celebra senza riserve la mediocrità.

Rifkin’s Festival: Cinema is King

Rifkin's Festival cinematographe.it

L’ex professore di cinema Mort Rifkin (Wallace Shawn) e sua moglie Sue (Gina Gershon) sono in crisi. Per consolidare il rapporto il Rifkin’s Festival, il Festival internazionale del cinema di San Sebastián, sembra l’occasione perfetta. Il lavoro di Sue, responsabile dell’ufficio stampa del giovane, affascinante regista Philippe (Louis Garrel) la allontana sempre di più dal marito, che con estremo disagio tenta di destreggiarsi tra cene glamour imposte dell’élite cinematografica e ricorrenti presagi di tradimento. A curare il suo cuore, l’incontro con la dottoressa Jo Rojas (Elena Anaya), cardiologa appassionata della Settima Arte, reduce da un matrimonio disastroso e attualmente impegnata in una relazione tossica. L’abitudine – come il sonno della ragione – genera mostri, e costringe gli amanti a riflettere sul vissuto e il vivibile, sospesi nel ricordo di ciò che è stato e in attesa di un futuro da costruire sotto la buona stella della novità. A volte bisogna descrivere i sintomi per vincere la malattia: così Mort impugna figurativamente la penna, e nell’estasi di diapositive in bianco e nero, vive il sogno cinematografico, un circo di figure macchiettistiche accompagnate da un flusso joyciano.

La diagnosi precoce è la chiave della sopravvivenza

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La previsione salva l’essere umano dal terrore della delusione, lo tutela dall’aspettativa – tiranna dell’autentico godimento – e lo istruisce sui passi da compiere contro l’ineluttabilità degli eventi. Rifkin’s Festival è un Woody Allen stagionato, quel dolore al petto (sintomo dell’età che avanza) che solo il cinema può affievolire. Con il tempo la chiave del regista ha rinvigorito la sua lettura universale, ha esteso i suoi sintomi ad un pubblico trasversale che conosce bene la lente alleniana. Mort Rifkin, che rifugge la banalità come fosse la morte dell’intelletto autonomo, è complice attore di una storia ordinaria, quella di una coppia stanca, assuefatta e abitudinaria che cede al peso degli anni e si realizza nel peccato d’evasione. L’amore per Parigi, per i suoi marchés aux puces riproposti nell’arazzo variopinto di San Sebastián, per la pioggia che culla i pensieri assolvendone ogni impurità, sono tutti condensati in un racconto familiare che perdona la dolcezza del suo attante buffo. L’ingenuità senile di Mort è contagiosa, un invito a debellare la monotonia per ritrovarsi giovani. Così la fotografia di Vittorio Storaro passa volutamente in secondo piano, cedendo il posto all’ordinarietà di un’esistenza in via di definizione, imprecisa tra i grigi e corposa nel suo spettro policromo ogni qual volta ci si avvicini alla felicità. La diagnosi precoce è la chiave della sopravvivenzaRifkin’s Festival è la versione, matura e senile, di ciò che già abbiamo visto, studiato, compreso e vissuto. Un indizio sul Woody che verrà, e una retrospettiva nostalgica sul Woody che è stato.

La morte risparmia solo Woody Allen

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Antonius Block: Chi sei tu?

Morte: Sono la Morte.

Antonius Block: Sei venuta a prendermi?

Morte: È già da molto che ti cammino a fianco. Sei pronto?

Antonius Block: Il mio spirito lo è. Non il mio corpo. Dammi ancora del tempo!

Morte: Tutti lo vorrebbero… Ma non concedo tregua.

(da Il settimo sigillo, Ingmar Bergman)

Rifkin’s Festival è l’amore di Woody Allen per il Cinema, da Fellini a Truffaut, da Welles a Buñuel e Bergman. , Citizen Kane, Jules et Jim, L’angelo sterminatore, Il settimo sigillo, Persona, Il posto delle fragole, tutti capolavori che il regista omaggia ergendosi sulle spalle dei giganti per restituirli plasmati dalla sua specifica identità. Il dialogo tra Antonius Block e la Morte (interpretata in Rifkin’s Festival da Christoph Waltz) ne Il settimo sigillo di Ingmar Bergman rappresenta forse l’emblema della svolta senile di Allen: sebbene il suo spirito sia pronto a cedere il passo al sonno eterno, il suo corpo è ancora qui per mettersi al servizio dell’universale, dei sentimenti, della quotidiana resistenza all’oblio. Rifkin’s Festival, nel suo farsi allegoria de L’Angelo sterminatore, suggerisce – con estrema fiducia nel suo pubblico istruito – la via d’uscita alle situazioni scomode, anguste, scadute, sulla scia di archetipi esistenziali che hanno fatto del cinema la traduzione universale dei sentimenti.

Rifkin’s Festival è al cinema dal 6 maggio 2021, distribuito da Vision Distribution.

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 3
Recitazione - 4
Sonoro - 4
Emozione - 3

3.6