Riparare i viventi: recensione del film di Katell Quillévéré
Riparare i viventi è un film interiore, che trascende ogni senso, una pellicola che si occupa di suggerire, a partire dal corpo umano, che esiste una sottrazione della vita ma che prosegue con una rinascita.
Riparare i viventi (Réparer les vivants) è un film del 2016 diretto da Katell Quillévéré, interpretato da Tahar Rahim, Emmanuelle Seigner e Anne Dorval, tratto dal romanzo Riparare i viventi di Maylis de Kerangal.
Il film orbita attorno a tre vicende diverse che ci incrociano. Simon è un ragazzo appassionato di surf e una mattina, dopo aver salutato la sua ragazza, sale assieme a due amici su una macchina per dirigersi verso il mare. Una svista o un colpo di sonno porta i tre ragazzi a schiantarsi, Simon è l’unico più grave ed entra in coma. I genitori si recano all’ospedale di Le Havre e la situazione è già drammatica: il medico, dopo aver consultato due neurochirurghi, non può che dichiarare la morte celebrale. Parallelamente un giovane medico, Thomas, deve discutere con i due genitori sotto shock della donazione degli organi di Simon che, nel caso, deve essere tempestiva. A Parigi intanto, Claire, una donna con gravi difficoltà cardiache, è in attesa di un cuore nuovo.
Riparare i viventi: il film di Katell Quillévéré
Riparare i viventi è un racconto trivio, sprigiona la sua creatività nell’incrocio, nel punto d’incontro di tre strade, di vite differenti che si specchiano nel bivio dell’altro, nella diramazione esistenziale, una racconto che si avvolge e si distende come le onde del mare. La descrizione di un’attesa, di un attimo eterno che divide la vita e la sua fine, di cui la regista Katell Quillévéré esalta la malinconia e il dolore, sfiorando a tratti il melò ma senza mai scompaginare la narrazione.
Riparare i viventi è un film interiore, che trascende ogni senso, una pellicola che si occupa di suggerire, a partire dal corpo umano, che esiste una sottrazione della vita ma che prosegue con una rinascita, quella che la regista insegue e indaga, mostrando attraverso una semplice ed efficace qualità visiva, gli attimi più fisici e quelli più metafisici, trasportando lo spettatore da un intervento a cuore aperto, ad una più metaforica transizione, laddove il soffio vitale sconfina.
Riparare i viventi è un film di piccoli dettagli e attimi meditativi
L’espianto del cuore di Simon è sicuramente il momento più difficile e intenso ma narrato con uno stile muscolare, disadorno. La storia vive di questa scena, pulsante e chirurgica, ed è singolare osservare come la regista lasci fluire la scena precisamente come un’onda, un battito, che freme dapprima dentro Simon e infine dentro il corpo di Claire. Come la vita è narrata con dolcezza e rispetto, lo è anche il trapasso, attorno alla morte c’è una liturgia visiva specifica e non è da sottovalutare che essa venga mostrata, attraverso i gesti dei medici, degli infermieri, gli sguardi e i bisturi che si posano sul corpo inerme del ragazzo.
Riparare i viventi è un film di piccoli dettagli, che emergono e confluiscono nello stesso mare, grazie ad un disegno sonoro (Alexandre Desplat) e una musica che esprime la tensione e l’urgenza di questi eventi, agendo come un tessuto connettivo. Attraverso la fusione delle narrazioni Quillévéré ci mostra come funziona ogni piccolo mondo, come funziona la donazione di organi, i voli di mezzanotte, i possibili destinatari e donatori e il rituale di preparazione chirurgica. Ogni attimo è descritto con cura, senza alterazioni, dall’inizio alla fine il film è impreziosito da attimi senza parole, quasi meditativi, in cui la trama sembra vivere un’auto-narrazione, poiché non c’è impeto, non c’è digressione, non c’è smania del racconto o frenesia drammaturgica, l’unico desiderio è raccontare l’attimo.