Ritratto di un amore: recensione del film di Martin Provost
L’ottavo lungometraggio da regista di Martin Provost guarda al cinema Bertolucciano e al racconto di un doloroso e sensuale ménage à trois confinato in un luogo d’idillio tanto sospeso e pacifico, quanto inclemente e spietato. Sull’impressionismo francese, la carnalità e l’amore che nonostante gli sbagli, sopravvive nel tempo. In sala dal 16 maggio, distribuzione a cura di I Wonder Pictures
“Non conosco nemmeno il suo nome”, dice Pierre Bonnard a Marthe de Méligny appena dopo aver fatto l’amore, dando ancora del “lei” alla donna che gli giace nuda accanto, osservando le bozze delle opere di Bonnard appese malamente alle pareti della soffitta parigina che lo stesso utilizza sia come studio, che come abitazione, sopravvivendo d’arte e così d’amore. Ed è proprio con questo incontro sospeso tra ispirazione artistica e sensualità carnale, che ha inizio l’ottavo film da regista e in questo caso anche da sceneggiatore di Martin Provost, Ritratto di un amore, presentato in anteprima mondiale al Festival di Cannes 2023 ed in seguito alla 14° edizione del Rendez-Vous, Festival del nuovo cinema francese.
Ritratto di un amore: un biopic che sarebbe piaciuto a Bernardo Bertolucci
È curioso che ad occuparsi di questo film sia stato proprio Provost, un autore che di biopic se ne intende, basti pensare a Violette e così di arte, poiché è proprio con Séraphine, racconto di vita della pittrice francese Séraphine de Senlis, che Provost trionfa ai César del 2009. Nel caso di Ritratto di un amore però, pur raccontando un protagonista piuttosto significativo come Pierre Bonnard (Vincent Macaigne in una prova straordinaria, amabile e destabile al tempo stesso), Provost sorprendentemente conduce la sua ottava opera da regista a briglie decisamente sciolte, concentrandosi non tanto sulla carriera del celebre pittore, piuttosto sull’importanza della carnalità e così dell’amore, pur sempre travagliato e mai pacifico, che lo stesso ha vissuto dal 1893 fino alla fine dei suoi giorni.
Inizialmente l’arte della pittura, che inevitabilmente richiede una decisiva quantità di pazienza, pratica e tecnica è per Bonnard un rifugio solitario, capace di isolarlo dal mondo e da quella società borghese e proletaria, che egli osserva e frequenta esclusivamente nella speranza di vendere alcuni dipinti per continuare a vivere e dipingere. Appena più tardi, in seguito all’incontro improvviso con l’ispirazione, l’attrazione e l’amore, dunque con Marthe de Méligny (Cécile de France è sensuale, temibile e dolce, in una prova di rara solidità), che comunque non ci è dato osservare e conoscere a fondo, l’arte diviene altro, mutando in processo condiviso, non più scaturito dalla condizione di silenziosa solitudine, piuttosto dai versi di godimento, dall’osservazione di un corpo nudo e dall’espressione che il sesso incide e disegna una volta per tutte, sui volti degli individui, meglio ancora, delle muse.
Eppure, il tempo, così come l’amore, l’arte e la moda, fa il suo corso. Marthe de Méligny, pur restando musa ispiratrice delle opere di Bonnard, colui che nonostante le incomprensioni, la distanza emotiva e gli inevitabili effetti del tempo e della memoria, rappresenta per la Méligny l’amore di una vita, diviene, poiché coinvolta, se non addirittura obbligata da quest’ultimo, dapprima testimone e poi coprotagonista di un ménage à trois. Se per la Méligny questo rappresenta una sfida, o ancor peggio, un affronto rispetto alla sua condizione di anzianità, non più attraente, per Bonnard non è soltanto un tentativo di percepirsi ancora giovane, ma soprattutto una via di rinascita, poiché è proprio da lì che la fama è cominciata, dalla carnalità, dal sesso, dal nudo e dall’intimità.
Così come nel cinema Bertolucciano – autore che senz’altro avrebbe gradito questo film -, basti pensare a Ultimo tango a Parigi, The Dreamers – I sognatori e Io e te, anche in Ritratto di un amore, Martin Provost confina i suoi protagonisti in un remoto luogo d’idillio sensuale e pienamente liberatorio, poiché privo di sguardi esterni, dunque di giudizi morali ed etici, nel quale Méligny, Bonnard e la giovane Renée (Stacy Martin non è mai stata così seducente, dolorosa e respingente) non possono far altro che lasciarsi andare alla più totale libertà, osservandosi, un po’ gelosamente e un po’ morbosamente, dandosi infine l’uno all’altra, per poi prendere coscienza della realtà, preferendo la fuga e il termine dell’idillio.
Ritratto di un amore: valutazione e conclusione
Provost guarda piuttosto esplicitamente a Bernardo Bertolucci, senza però possederne né l’eleganza, né la carica sovversiva che l’autore di Prima della rivoluzione, La luna e Il tè nel deserto di certo possedeva. Nonostante questo, l’ottava prova da regista di Martin Provost è degna di nota, forte di un tris di encomiabili interpretazioni e così di una meravigliosa fotografia a cura di Guillaume Schiffman.
Un film estivo in piena regola, che tra bagni al fiume inevitabilmente nudi, nottate sotto le stelle – che bello quel momento in cui Bonnard e Méligny, pur trovandosi in luoghi piuttosto distanti tra loro, guardano al cielo stellato nello stesso momento, connettendosi in qualche modo, fino a ritrovarsi, senza tuttavia esserne coscienti – ed una sessualità forsennata, disperata e seppur caotica, profondamente liberatoria, Ritratto di un amore conquista e coinvolge, ritagliandosi un angoletto nella memoria e nel cuore dello spettatore, nonostante un’eccessiva durata e talvolta un’inspiegabile estremizzazione dei toni propri del melò.
Che bello questo film di Martin Provost e che racconto interessante dell’impressionismo francese, considerata soprattutto la sua origine e matrice carnale.
Ritratto di un amore è al cinema a partire da giovedì 16 maggio, distribuzione a cura di I Wonder Pictures.