Road House: recensione del film con Jake Gyllenhaal
Jake Gyllenhaal nel remake del cult anni 80 con Patrick Swayze.
Dal 21 marzo 2024 su Prime Video è disponibile Road House di Doug Liman, remake de Il duro del Road House, piccolo film del 1989 di Rowdy Herrington, che cercò di trasformare – almeno in parte – Patrick Swayze da icona romantica a icona action.
Il film, per quanto riguarda la trama, segue abbastanza fedelmente l’originale, apportandovi giusto lievi modifiche che ne modernizzano la vicenda. Alcuni personaggi cambiano etnia e sesso, il locale road house non si chiama più Double Deuce, ma proprio Road House. La storia è sempre quella di Elwood Dalton (Jake Gyllenhaal), che nel primo film era un laureato in filosofia, esperto di arti marziali, finito casualmente a fare il buttafuori, mentre qui è un ex campione di MMA, che, uscito dal circuito UFC, dopo un incidente, sopravvive fra incontri semiclandestini e istinti suicidi. Dalton viene ingaggiato dalla proprietaria di un locale in una cittadina della Florida, il Road House, per porre fine alle risse che la stanno lentamente portando al fallimento. Dietro le violenze si cela in realtà il piano criminale di un ricco speculatore immobiliare, Ben Brandt, intenzionato ad appropriarsi del terreno del locale. Dalton normalmente usa la violenza solo se costretto e in misura sempre moderata, ma viene spinto a scatenare la propria furia quando Brandt passa il segno. Il villain, infatti, prima fa bruciare l’unica libreria della cittadina, gestita da una simpatica ragazzina e da suo padre e poi scatena lo psicopatico Knox – Conor McGregor, campione dell’UFC nel mondo reale, alla sua prima prova attoriale – sulla comunità.
L’unica differenza degna di nota, rispetto alla sceneggiatura originale, è l’assenza del mentore di Dalton, il buttafuori Wade Garrett, la cui morte serve da catalizzatore per la rabbia dell’eroe – qui questa funzione è assunta dall’incendio doloso della libreria. È nell’atmosfera generale e nel genere filmico di riferimento, che il remake, invece, si discosta parecchio dal suo predecessore.
Il duro del Road House, un fantasy travestito
Il film di Herrington infatti, pienamente in sintonia con la cultura degli anni ottanta, delinea un mondo cupo, in cui la classe media wasp, appare assediata da una sorta di anarchica violenza di strada, al servizio di un capitalismo avido, legato alla criminalità. La fotografia un po’ sporca e vagamente espressionista, il set design, il taglio delle inquadrature, molto statiche per essere quelle di un action, sono elementi che concorrono a descrivere un mondo perduto nella violenza, dove è la legge del più forte a dettar le regole. In questo contesto, il corpo di Swayze si carica di un simbolismo eroico, tipico di personaggi come Conan il barbaro.
Ovvero i muscoli tesi, l’efficienza fisica e le capacità guerriere definiscono, in un simile contesto, anche l’etica. Il bene per essere tale, deve essere in grado di usare quella stessa legge del più forte, tipica del male, così da ristabilire la giustizia in una “terra selvaggia”. Si ricordi che il film è ambientato in Florida e offre una serie di landscapes che privilegiano gli aspetti di wilderness rispetto a quelli della civilizzazione urbana. Il Double Deuce, la casa dove vive Dalton, le strade stesse su cui si muovono i protagonisti, sono tutte immerse in una natura che, attraverso campi lunghi e prospettive che mettono in primo piano la vegetazione e l’acqua della palude, inscrive le tracce di questa civiltà imbarbarita in un contesto primitivo. Il duro del Road House, più che dei coevi action marziali di ambientazione urbana, sembra essere debitore del genere fantasy, inteso come un genere, imparentato con mito ed epica, che si pone come “l’elaborazione spuria di una favolistica”, da parte di un paese alla ricerca costante di tradizioni culturali da innestare sulla propria genealogia (si veda a riguardo La Polla, Sogno e realtà americana nel cinema di Hollywood).
Road House: un western esibito
Non stupisce, allora, al di là dell’attuale, folle dipendenza hollywoodiana da remake, reboot, sequel e prequel, generata dalle strategie di sfruttamento economico della nostalgia, il fatto che un prodotto del genere, una sorta di favoletta postmoderna americana, sia stato scelto per essere riproposto in chiave contemporanea. Il regista decide però di ricondurre il racconto apertamente, con tanto di autoconsapevolezza metatestuale, all’unica vera mitologia interamente statunitense, quella del western.
Sebbene, infatti, la vicenda raccontata sia pressoché identica, il punto di vista cambia. Il corpo paradigmatico dell’eroe non è più l’apice di una cultura guerriera individualista, in grado di ispirare la middle class wasp. Diventa un corpo sofferente, quasi cristologico – l’attenzione alle ferite e alle cicatrici e in generale alle conseguenze della violenza è più marcata in questo remake. Dalton è un guerriero caduto, che vive ai margini della civiltà. Una civiltà multietnica e inclusiva, non più wasp, ma che alla fine è sempre immagine simbolica della comunità di frontiera, del villaggio assediato dai banditi, raccontato allo sfinimento nell’epoca d’oro del western. Da tradizione, tale comunità per essere salvata e poter continuare a fungere da “terra dei liberi” ha bisogno del suo antieroe outlaw. Ecco che Dalton si assume questo ruolo e invece che ispirare, viene ispirato ad agire dalle persone della comunità. Però non appena l’eroe agisce, per l’ennesima volta il cinema statunitense ribadisce la vecchia idea secondo la quale per poter fondare, o rifondare, una comunità attraverso la legge, serve un martire che prenda la legge nelle proprie mani e usi la violenza, per poi sparire di nuovo ai margini, fuori dalla civiltà, condannato alla solitudine.
Road House: valutazioni e conclusione
La forma con cui il regista confeziona tutto il discorso purtroppo è abbastanza banale. La fotografia patinata che privilegia i contrasti cromatici fra blu e gialli e le inquadrature/cartolina turistica fin troppo abbondanti, diventano indice di una visione derivativa (John Wick su tutti) dell’action, mentre i movimenti di macchina arditi, simili a certi cambi di prospettiva tipici dei moderni picchiaduro videoludici, per quanto affascinanti, finiscono per non creare un effetto di profondità, quanto quello di una certa piattezza planimetrica e macchinica. Vi sono anche alcune trovate interessanti, come le soggettive dal p.o.v. di chi picchia. Nonostante alcune ingenuità nella sceneggiatura e alcuni tagli di montaggio non troppo convincenti, gli eventi sono narrati con un buon ritmo, in grado di mantenere alta l’attenzione. La cupezza dell’originale cede il posto a una certa ironia e la storia ne trae vantaggio. Gli attori fanno il proprio lavoro e Gyllenhaal “gigioneggia” piacevolmente. Le arti marziali alla fine hanno il loro spazio, ma non sono al centro della scena. Quando però McGregor conquista la ribalta, Liman non si risparmia e ci offre uno scontro finale degno di tale nome.
In definitiva Road House, al netto di un’estetica derivativa, può anche intrattenere bene, a patto di non prenderne troppo sul serio le velleità mitiche/western e non aspettarsi nulla di troppo originale – tutto sommato, un discorso simile si potrebbe fare anche per il film da cui trae origine.