Venezia 73 – Robinù: recensione del film di Michele Santoro
Robinù è un documentario di Michele Santoro presentato a Venezia 73 in Cinema del giardino. Questo film, questo documentario, è talmente vero da sembrare una pellicola redatta con attori esperti ed egregi simulatori di storie. Talmente incredibile e cinico da paralizzare lo spettatore.
Si viene subito in contatto con una realtà napoletana, vengono intervistati dei ragazzi che non vanno spesso a scuola, anzi non vanno per niente, dei ragazzi che parlano di un uomo, di un mito, un baby boss di nome Emanuele. Ed è da li che Michele Santoro decide di partire, il (macro)cosmo napoletano della paranza dei bambini.
Il suo racconto è imperniato su questa cosiddetta paranza dei bambini, quel fenomeno che ha fatto si che la camorra, soprattutto in zone centrali di Napoli, continui le sue faide armando minorenni e distruggendo famiglie e quartieri interi. Vengono intervistate tante famiglie, tante persone, tante storie narrate con l’occhio investigativo da inchiesta e con il giusto tempo filmico affinché vengano esplicate per bene le condizioni dei ragazzi, la cui unica sfortuna è quella di vivere in quei territori. Viene raccontato tutto, dal mondo che li attornia fin dalla nascita, a come vengono attratti dal sistema e fino alla loro incarcerazione, per i più fortunati che sono in carcere e che hanno la possibilità di replica.
La paranza dei bambini è un fenomeno da non sottovalutare, anzi di cui se ne parla ancora così poco, sembra che la camorra sia una favola che si racconta per spiegare il fallimento e la povertà di un paese che preferisce credere agli alieni che alla malavita.
Nel documentario si parla spesso di un ragazzo di 19 anni, protettore e gangster, adolescente e uomo: è Emanuele Sibillo, un mito, l’aspirazione di ogni ragazzo e il sogno proibito di ogni ragazzina, era un padrino, un mecenate. Morto a 19 anni nella faida per il predominio del centro di Napoli, tra Forcella e Tribunali.
Come lui sono tanti i ragazzi sconfitti sotto i colpi di una guerra più grande di loro, loro che non hanno mai avuto un’alternativa, un’altra vita possibile, nella povertà più dilagante, quando lo stato è assente in modo assurdo e totale, ecco che si inserisce il sistema, quel sistema che fa affiliati ogni giorno, ogni ora, le cui dinamiche sono il segno di un’intero continente, non di una periferia, non di una sola città.
Michele Santoro si chiede infatti: Perché la camorra esiste proprio a Napoli?
Una domanda alla quale pochissimi saprebbero rispondere. E in quella stessa povertà, in quella realtà lasciata a sé stessa che i ragazzi sognano i soldi, sognano il potere attraverso le armi che danno un senso di immortalità.
Quella è l’unica vita che vogliono adempiere, il carcere non preoccupa, è solo un purgatorio che ti tiene fermo, ma non educa, non direziona minimamente, i ragazzi sono lasciati a loro stessi, traviati da una sotto cultura di strada che non li porta a potersi redimere, o preferire un lavoro, purché sia onesto, pulito. Perché guadagnare 1000 euro al mese quando ne posso guadagnare gli stessi al giorno grazie al sistema?
Ecco il sistema, la camorra, la malavita è un’occupazione seria, vera, che non tradisce, che assicura un ricavato, contribuisce alla tua gloria, laddove è considerata una gloria, ma ti chiede in cambio un prezzo altissimo: la libertà o la vita.
Ma quanta emancipazione, quante altre libertà favorisce? Per un adolescente è il massimo, è tutto nuovo, tutto più puro, tutto più intenso, i soldi, le donne, la droga, il controllo. Armare la mano di un ragazzo è doppiamente più facile perché comporta due cose: non hanno paura perché i meriti di una gioventù sono quelli di essere spavaldi, sprovveduti, e soprattutto la promessa di evadere dalla povertà, dallo squallore subito, ora.
Le riprese attraversano le case, i quartieri ma soprattutto Poggioreale.
Robinù denuncia e ascolta, parla di Napoli, parla dei ragazzi, ma soprattutto delle famiglie: i Mazio e più precisamente Michele. Michele è in carcere, prima rapina a 13 anni, condannato per concorso in omicidio, lesioni e rapine.
Michele è un ragazzo che va per la sua strada, non appartiene a nessuna fazione, vuole una propria paranza, riceve lettere d’amore dalle ragazze in visibilio per lui, incosciente, sarcastico, sopporta il carcere con disinvoltura e sa che la sua unica strada è quella.
Ma che futuro può avere un ragazzo incarcerato a 17 anni, che se va bene esce a 40 anni, quando l’unica cosa che ha conosciuto è la malavita, come si spaccia, l’estorsione, la prostituzione? Quale futuro gli si propone se in carcere non vengono avviati alcuni programmi di recupero, scolastico o di rieducazione?
Viene mostrata la sua vita anche attraverso gli occhi del fratello, scappato a Parigi per non avere ripercussioni mortali a causa delle scelte della sua famiglia, lo stesso Michele non gli rivolge più la parola, una vergogna per la famiglia, un uomo scappato a fare il pizzaiolo in Francia.
La cinepresa è inglobata in questa realtà, fatta da genitori coinvolti nel sistema, chi più chi meno chi per niente, mogli e madri che cercano di mandare avanti una famiglia disossata, chi col marito condannato all’ergastolo, chi col figlio morto ingiustamente coinvolto in una faida, giovani donne che spacciano al posto del compagno assente, donne con figli da sfamare, ora giovani boss di quartiere, talvolta ai domiciliari.
Tutto un mondo violento e nocivo. E li ferma c’è Napoli, una città meravigliosa e maledetta, la cui voce è talmente flebile che sembra accogliere con gentilezza anche i suoi figli più scalmanati e quello stesso universo talmente cupo da non lasciare intravedere null’altro.
Robinù è un grido, è testimonianza della verità, è la paura che nessuno abbia più interesse a sentir parlare di camorra, è il modo di rendere colpevole il disilluso, chi non si interessa, i ciechi, i sordi, gli incoscienti, i menefreghisti. E se fossimo nati in quei posti? E se il sistema dominasse nelle nostre terre? Avremmo ancora il coraggio di voltarci le spalle?
Michele Santoro lancia un messaggio forte, fortissimo. Lo stato deve essere presente. Deve educare, coinvolgere, deve aprire gli occhi e restituire a quelle persone, quei ragazzi la loro vita, la loro adolescenza, il merito di una esistenza che valga la pena di perseguire.