Roma FF11 – La Caja Vacía: recensione del film di Claudia Sainte-Luce

La Caja Vacía è un film della regista messicana Claudia Sainte-Luce, presentato alla Festa del cinema di Roma 2016, interpretato da Claudia Sainte-Luce, Jimmy Jean-Louis e Pablo Sigal.

Jasmìn è una scrittrice di opere teatrali, lavora come cameriera e vive a Città del Messico sola con un gatto in un appartamentino austero e desolato. Un giorno riceve una telefonata ed è l’ospedale: il padre, Toussaint, ha avuto un incidente sul lavoro. Jasmìn non aveva quasi più contatti con il padre, un uomo che fino al quel momento non vedeva e non sentiva e con cui non aveva più niente da dire o da condividere.

Ma essendo l’unica familiare, va da lui e comincia a prendersene cura, comprendendo che la sua condizione non gli permette di essere minimamente autosufficiente, e non solo per l’incidente.

Entra in casa sua e si trova dinanzi una dimora che è più uno scantinato buio e spartano, con luce assente e una televisione sempre impostata sulla telecamera accesa notte e giorno, che dá sull’uscio della porta. Jasmìn capisce che il padre ha difficoltà neurologiche, già diagnosticate in passato, una demenza vascolare che ormai stava degenerando.

L’uomo comincia a confondere le cose, a dimenticarle, a ricordarne altre del lontano passato, e in tutto ciò il loro rapporto diventa difficile, la convivenza diventa ardua, due persone pressoché estranee, lei che non rinuncia mai a prendersi cura e preoccuparsi di lui e lui che insiste a voler star solo o andare in una casa di riposo, ignorando quell’ultimo legame, l’ultimo barlume di vita con la figlia, l’unica cosa che gli rimane.

Ma Jasmìn non molla la presa e si metterà totalmente in gioco rivivendo con il padre attimi belli e sofferti, sembianze di vita e nostalgia, lasciandole riaffiorare nella mente di lui, provando a posizionarle e a unirle in un mosaico che la mente di Toussaint lentamente scombussola e assembla senza disciplina.

La Caja Vacía è una pellicola tutta volta alla vita quotidiana, in cui vengono mostrate tutte le abitudini e i dettagli della vita di Jasmìn e di suo padre, giorno dopo giorno

Camera fissa, poca luce, tante espressioni e altrettanto poca trama che trova la sua forza solo nell’uso, eccessivo, dei flashback, su cui la regista ripiega in modo strabordante, mostrandoci ciò che ricordava Touissant, ricordi nei quali egli non è un bambino con sua madre o il padre ma è un uomo adulto; è lui oggi a 60 anni, che stringe la mano alla sorella piccolina ad Haiti in una foto di famiglia; è lui a 60 anni che incontra la moglie a New York, è sempre lui nomade del mondo che si rifugia nel passato e confonde il presente  facendo lentamente sì che questa scatola, questa Caja si svuoti, come la mente piena di ricordi che cede il passo alla malattia, facendo sì che della sua memoria non rimanga che una manciata di visioni messe insieme senza logica temporale.

La Caja Vacía parte da un’ottima idea di base, il quotidiano, due sconosciuti, la malattia e la riappropriazione di un’identità, le origini haitiane, il vivere messicano mostrato con sincerità, senza eccedenze di nessun tipo, ma tutto ciò penalizzato da una narrazione scarna, piatta che non coinvolge mai, che non si sforza mai di glorificare o  demonizzare.

Sembra che ogni cosa che accade non sconvolga mai i protagonisti, nessun blocco, nessuna difficoltà reale, tutto sembra sempre normale, una normalità che è differente dalla quotidianità, poiché mostrare il quotidiano con semplicità è bello e doveroso ma quando un padre e una figlia che sono due estranei si trovano a convivere forzatamente, non è tutto normale e ammortizzabile, ci sono mille ostacoli da superare, difficoltà presenti, reali, che non vengono ricreate a dovere soprattutto sul lato psicologico. è

La Caja Vacía resta dunque un elettrocardiogramma piatto, senza picchi, senza emozioni, con uno sgonfio e riluttante desiderio di riconciliazione che non soddisfa minimamente lo spettatore.

Regia - 2.5
Sceneggiatura - 1.5
Fotografia - 2.5
Recitazione - 2
Sonoro - 2
Emozione - 1.5

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