Room 999: recensione del documentario di Lubna Playoust
Realizzata durante il festival di Cannes del 2022, l'inchiesta della cineasta Playoust rinnova l'interrogativo che, quarant'anni prima, Wim Wenders aveva posto a sé stesso e ai suoi colleghi: "Dobbiamo celebrare il funerale del cinema?". Da lunedì 6 maggio nelle sale italiane.
Cominciamo con una lista di nomi di personalità del cinema, rigorosamente in ordine di apparizione: Wim Wenders, Audrey Diwan, David Cronenberg, Joachim Trier, Shannon Murphy, James Gray, Arnaud Desplechin, Lynne Ramsey, Asghar Farhadi, Nadav Lapid, Claire Denis, Davy Chou, Buz Luhrmann, Alice Winocour, Ayo Akingbade, Olivier Assayas, Paolo Sorrentino, Agnès Jaoui, Kirill Serebrennikov, Christian Mungiu, Kleber Mendonça Filho, Albert Serra, Monia Chokri, Ninja Thyberg, Pietro Marcello, Rebecca Zlotowski, Ali Cherri, Ruben Östlund, Clément Cogitore, Alice Rohrwacher. Sono questi i sedici cineasti o artisti visivi intervenuti in Room 999, documentario che, adeguandolo ai tempi presenti, ribalta, già nel numero (quasi) ‘satanico’ del titolo, quel Chambre 666 realizzato da Wim Wenders nel 1982: allora, il regista tedesco aveva chiesto ad alcuni suoi colleghi di entrare nella camera (appunto) numero 666 dell’hotel Martinez di Cannes, chiudervisi per qualche minuto e rispondere, davanti a una camera fissa, a due domande: 1) “Qual è il futuro del cinema?“; 2) “Il cinema è un linguaggio che andrà perduto, un’arte che sta per morire?“. Quarant’anni dopo tocca proprio a lui rispondere per primo ai due quesiti.
Room 999: Lubna Playoust aggiorna gli interrogativi che furono già di Wim Wenders
Il cinema nasce come “intrattenimento da fiera“, chiarisce Wenders, ma oggi la fiera non è un luogo fisico, bensì virtuale. Il che cambia tutto, perché, se s’immaginava che sarebbe cambiato il mezzo di distribuzione dei film, oggi è necessario prendere consapevolezza del fatto che cambiare modalità di distribuzione di film ha determinato una trasformazione del cinema tout court. Paradossalmente, quel che oggi sta accadendo è che il cinema è tornato, quasi per effetto di un ricorso ciclico, a essere “intrattenimento da fiera“. Audrey Diwan, vincitrice del Leone d’Oro della Biennale di Venezia nel 2021 con La scelta di Anne, adattamento di un romanzo della scrittrice premio Nobel francese Annie Ernaux sulla sua esperienza d’aborto, manifesta preoccupazione per il “ritmo” che i film prenderanno: “Se guardo i miei figli scrollare i cellulare, mi rendo conto che quel che stanno provando non è soddisfazione, ma appagamento, e mi chiedo se, abituati così, riuscirebbero a vedere un mio film dall’inizio alla fine“. La domanda non è solo se il cinema dovrà imparare, se vuole sopravvivere alla ‘concorrenza, a emulare la capacità di abreazione pulsionale dei contenuti per device, ma anche se è giusto che si snaturi a scopo adattativo. “Bisogna chiedersi“, osserva Olivier Assayas, “se dobbiamo considerare cinema qualsiasi storia per immagini“. Preso atto dell’estrema vulnerabilità della settima arte, c’è chi ritiene sia ontologica – “Il cinema nasce come disciplina fragile, ed è stimolante sia così” –, chi invece legge in questa vulnerabilità i segni di un’agonia – James Gray, “russo di origine“, e quindi per forza “pessimista“, è di questo avviso; l’altro russo intervenuto, l’oppositore di Putin Kirill Serebrennikov, sul cadavere del cinema ci balla letteralmente sopra –, chi, come il romeno Cristian Mungiu, crede che, più che preoccuparsi dei film che verranno, sia meglio salvare la memoria di quelli che già sono stati fatti: un patrimonio ricchissimo e negletto.
Room 999: valutazione e conclusione
È interessante, nel documentario di Lubna Playoust, appassionante nonostante l’inevitabile staticità di un’organizzazione del materiale secondo un dispositivo che ordina i contributi critici, giustapponendoli senza tagliarli, come cambino le prospettive di problematizzazione – e anche il grado di disponibilità (e capacità) di approfondire e articolare il pensiero – al cambiare voce (e sguardo) sul problema. Alcuni cineasti si concentrano sul cinema in sé – le sue grandi questioni drammaturgiche ed estetiche; il rapporto tra le sue due scritture, verbale e visiva, e le richieste sociali –; altri sull’influenza delle esigenze produttive e distributive sull’ispirazione artistica. Paolo Sorrentino mette in guarda dai rischi di un’espressione artistica che cerca di “accontentare i molti“, perché “l’arte dev’essere libera, e la libertà implica una parte di coraggio e di scorrettezza, persino di maleducazione“. Ali Cherri, video-artist libanese, e Ruben Östlund, regista svedese, invitano a non scambiare l’apparente democratizzazione dell’esperienza cinematografica quale esito della rivoluzione operata dalle piattaforme streaming – di proprietà di poche compagnie, in realtà – per allargamento delle possibilità di accedere al mezzo cinematografico per esprimersi. “Il cinema consacra spazi di libertà; è proprio dei totalitarismi colonizzare l’immaginario dei popoli che intendono controllare“, riflette il primo, mentre il secondo ricorre a una metafora: “Immaginiamo un resort in Egitto. È un resort extralusso, ma alla carta è possibile solo scegliere tra un vino rosso e un vino bianco, e i tre ristoranti disponibili, di tre diverse cucine, in realtà preparano pietanze che hanno lo stesso sapore… dopo una settimana di permanenza in questo resort, forse questa omogeneità di gusto finirà addirittura per piacerci“. Anche Clément Cogitore, cineasta attivo tra Parigi e Berlino, associa la sopravvivenza del cinema al “desiderio di fregare il sistema“: “Finché avremo voglia di farlo, ci saranno film“.
Agnes Jaoui, sceneggiatrice, pensa al padre che vive in Italia e a come, nel Belpasese, “venticinque anni di berlusconismo e i mancati finanziamenti della politica hanno ucciso il cinema italiano; noi francesi siamo più fortunati“. Ma è a una regista italiana, Alice Rohrwacher, che viene concesso di chiudere il carosello di considerazioni avviato dalle domande di Wenders rinnovate da Playoust. È Rohrwacher che, insieme liricamente e lucidamente, individua qual è il ruolo del cinema oggi, evidenziandone necessità: “Il cinema è fragile, d’accordo, ma ci può dare quel che ci manca. Oggi abbiamo bisogno di esperienze collettive; il cinema ci offre la possibilità di partecipare a un rito. Oggi che siamo malati di controllo, abbiamo bisogno di perdere il controllo; il cinema ci fa perdere il controllo esponendoci allo sguardo dell’altro, facendoci avvicinare a uno sguardo altro da noi. In un’epoca in cui tutto è storia, il cinema ci dà la poesia“. Se qualcuno, come Ninja Thyberg, protesta contro l’élitismo di chi, nella lotta per salvare il cinema, dimostra di avere cuore solo un pubblico ristretto e di essere indisposto a rinegoziare il linguaggio cinematografico per modularlo su un’audience più ampia e meno sofisticata, quasi tutti convengono nel ritenere che a (dover) sopravvivere siano soprattutto i “pétits films” di cui parlava già, nel 1982, Jean-Luc Godard: “Bisogna tornare alla logica del prototipo, all’unicità di una visione singolare sulle cose, che ci spossessi da noi, ma ugualmente non ci renda estranei a noi stessi“.