Rossosperanza: recensione del film di Annarita Zambrano
Il sangue è l'inizio o la fine della speranza? Commedia nera e favola non convenzionale, Rossosperanza, seconda regia di Annarita Zambrano, arriva nelle sale italiane il 24 agosto 2023 dopo il passaggio al Locarno Film Festival.
Nei cinema italiani il 24 agosto 2023 per una distribuzione Fandango, prodotto da Mad Entertainment con Rai Cinema, in coproduzione con Ts Productions e in associazione con Minerva Pictures, Rossosperanza è il secondo film da regista per Annarita Zambrano. Il primo si chiamava Dopo la guerra ed è passato per Cannes, sezione Un Certain Regard. Stavolta si guarda altrove, in Svizzera, al Locarno Film Festival che farà da cornice (Concorso internazionale) alla prima ufficiale, con due settimane di anticipo sullo sbarco in sala. Il cast di questa commedia nera ambientata in un Italia che non esiste più (davvero?), agitata dal fantasma di una violenza nerissima e destabilizzante, comprende Margherita Morellini, Leonardo Giuliani, Ludovica Rubino, Luca Varone, Andrea Sartoretti, Daniela Marra e Rolando Ravello.
Rossosperanza: quattro ragazzi e una tigre
Italia, da qualche (non ben specificata) parte. Sul quando ci sono meno dubbi, siamo alla fine degli anni Ottanta. La transizione da un decennio all’altro non è ancora compiuta, la sbornia della corruzione e della facile avidità persiste. E una certa parte del Paese, benestante e convinta di essere al di sopra di tutto, pensa solo a divertirsi, incurante della tigre che si aggira di notte in giardino. Ha molta fame, la tigre, è il simbolo scelto da Annarita Zambrano – oltre ad essere regista è anche sceneggiatrice di Rossosperanza – per veicolare l’ingresso nella storia di una violenza dirompente. Che distrugge e a modo suo, chissà, ricostruisce. Il film è il punto di vista dei suoi protagonisti e i suoi protagonisti sono quattro ragazzi. Quattro giovani, in rotta con il mondo dei grandi.
Tutto comincia nel momento in cui Zena, che è un’adolescente, ha poco più di sedici anni, arriva in una lussuosa residenza di campagna usata come centro di riabilitazione per ricchi rampolli in fuga da un passato orribile. In effetti, tutti gli ospiti della villa hanno la loro parte di peccati da espiare. Il soggiorno nella struttura, dal punto di vista degli adulti, i carcerieri, serve a trovare il modo di reprimere gli atteggiamenti e i pensieri anomali che hanno fatto da movente alle condotte scellerate. I ragazzi di Rossosperanza hanno scheletri nell’armadio, già detto. Vale per Zena ma anche per Marzia, Alfonso e Adriano. Li interpretano Margherita Morellini, Leonardo Giuliani, Ludovica Rubino, Luca Varone. Un mostro a quattro teste, positivamente s’intende. Vanno considerati sempre insieme.
E questo anche quando Rossosperanza indaga il passato di ciascuno per chiarire allo spettatore come si è finiti nella villa e (soprattutto) perché. I problemi dei ragazzi e la loro violenta risposta sono parte di un problema più grande, un problema comune. La normalità è il problema: cos’è, da dove viene, chi ne detiene il monopolio, questo si e ci chiede il film, con tanta ostinazione. Zena e gli altri sono separati dalla società civile perché colpevoli, con le loro azioni, di essersi allontanati da uno standard di normalità, di condotta rispettabile, beneducata, necessaria per stare nel mondo dei ricchi e potenti. Hanno fallito e devono essere rieducati. Ma il concetto di normalità, il mondo dei grandi, dei genitori – Andrea Sartoretti, Daniela Marra ma non solo – lo intende in modo ipocrita e opportunista. Corruzione, abuso di potere, privilegi, ipocrisia. Questa è la verità oltre il perbenismo. I quattro ragazzi e la tigre hanno molto lavoro da fare.
Figli da una parte, genitori dall’altra. E la violenza in mezzo
Il mondo di Rossosperanza è drammaticamente tagliato a metà. I giovani da una parte, i grandi dall’altra. Nell’ipnotico incedere del film, squarciato da improvvisi lampi di violenza, mai restituiti con morbosità e compiacimento, piuttosto evocati con toni allusivi – perché il cinema non è semplicemente le cose che mostriamo ma anche e soprattutto quelle cui accenniamo soltanto – l’espressione di una ribellione all’autorità paterna e materna, che per compiersi si serve degli stessi strumenti usati dagli adulti per costruire il loro mondo precario.
Gli anni ottanta al tramonto a far da sfondo e la scelta non è casuale. Una messa in scena di qualità riscopre scrupolosamente mood ed estetica di un’Italia edonista e convinta che la festa non finirà mai. E invece, inchieste e scandali sono a un passo. Annarita Zambrano vede violenza dappertutto e non ha tutti i torti: è nella ribellione dei figli e negli abusi di potere dei padri. Quella dei ragazzi può essere la base per costruire un mondo nuovo per tutti o magari è il segno di una cesura definitiva, ballare da soli al ritmo del più bel rock alternativo del decennio. Per un film che crede nella necessità di investire su un linguaggio, una forma, capace di far arrivare nel modo giusto le proprie verità allo spettatore, il ricorso all’animazione testimonia di una volontà d’autrice che non si arrende alla consuetudine pigra e pretenziosa di un certo cinema italiano. Rossosperanza non è un film perfetto, ma ha il merito di preferire le domande difficili alle risposte semplici.
Rossosperanza: valutazione e conclusione
Commedia nera, anche un po’ favola fuori dagli schemi. Affresco storico, ma solo negli elementi essenziali, perché la preoccupazione di Annarita Zambrano non è il rigore cronachistico, piuttosto la ricerca di una chiave (formale, narrativa) che sappia raccontare bene i fantasmi che agitano l’anima dei protagonisti. Rossosperanza funziona meno bene nell’insieme che nei particolari. È proprio lì, nel racconto (deliberatamente frammentato) del privato e dell’intimità dei quattro protagonisti, nel mix di surrealtà, umorismo, grottesco e violenza, che si rintraccia il segno di una visione autoriale interessante.