Royalteen: la principessa Margrethe – recensione del film Netflix

Royalteen: la principessa Margrethe sembra non aver appreso la recente, seppur ovvia, lezione dai cugini seriali Skam e Royal Teen: i sentimenti degli adolescenti in tv non passano sempre per l'inquadratura (a tutti i costi) perfetta.

Nel precedente Royalteen – L’erede, primo adattamento Netflix della serie di romanzi di Randi Fuglehaug e Anne Gunn Halvorsen, il peso della corona cadeva sulla testa di Kalle (Mathias Storhøi), il giovane principino norvegese dalla reputazione di casanova incallito, che s’innamorava di una Cenerentola qualunque (Lena, Ines Høysæter Asserson) suscitando lo sdegno della famiglia reale. Seguendo una sorta di linea di sangue, Royalteen: la principessa Margrethe (dall’11 maggio) si concentra invece su sua sorella minore interpretata dalla giovane attrice Elli Rhiannon Müller Osbourne, bissando lo stesso percorso intrapreso dal fratello di liberazione e affermazione della propria identità, attraverso un coming-of-age che risulta piuttosto una vacua e (pericolosamente) semplificata storiella di sbando adolescenziale e disintossicazione da abuso di psicofarmaci e attacchi di panico.

No, non è il rehab quello che solleva le sorti della dolce e triste principessa, men che meno un buon psichiatra, ma incontri anche fugaci con alcuni ragazzi di diversa estrazione sociale che interagiscono con lei diventando nello stesso identico modo causa, effetto e cura dei suoi mali.

I dolori della giovane Margrethe

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Royalteen: la principessa Margrethe inizia nello stesso punto in cui finiva il film uscito nell’agosto dello scorso anno. Portata d’urgenza in ospedale dopo una festa del ballo scolastico, la diagnosi del malore di Margrethe è presto detta: cocktail quasi fatale di alcool, benzodiazepine e cocaina. L’a faccia’espressione più delusa che preoccupata sui volti dei suoi genitori non le facilitano di certo le cose, perché ora, alla Sissi di Norvegia dalla somiglianza impressionante della cantante nostrana Annalisa (fateci caso), aspetta il compito più duro: rispondere alle pressanti domande dei giornali nazionali; tornare a scuola sotto lo sguardo giudicante dei compagni; tenere una facciata di perfezione e affidabilità visto il ruolo istituzionale che ricopre.

Pensi a dei cuccioli, a dei gattini” le dicono i counselor prima della conferenza stampa in cui sta per chiarire una volta per tutte il contenuto inequivocabile di un video che la vede sniffare cocaina con un bel giovanotto altissimo e vigliacchissimo. Sarà quel quasi revenge porn a scatenare in Margrethe il bisogno di mettersi al pari con la normalità che vede nei suoi amici, accettando le vulnerabilità genitoriali (la madre clinicamente ansiosa, il padre sentimentalmente represso) e il processo sanatorio dell’attraversamento del dolore. Le ronzeranno attorno quattro, cinque ragazzi per salvarla.

Royalteen: la principessa Margrethe è il secondo capitolo tratto dai romanzi di Randi Fuglehaug e Anne Gunn Halvorsen

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Diretto da Ingvild Søderlind e adattato per lo schermo da Marta Huglen Revheim, Ester Schartum-Hansen e Per-Olav Sørensen, Royalteen: la principessa Margrethe è un teen-movie sul canovaccio ragazza bella e fortunata ma triste, in cui la smania all’inquadratura (e al look) perfetta invece di diventare mezzo per sollevare le mutevoli emozioni della protagonista finisce piuttosto per seppellirle. Come già visto nel primo capitolo infatti, il film vanta di una resa fotografia davvero apprezzabile, dalla scelta dell’effetto sfumato dei bordi dell’inquadratura, alle austere location regali di ampi spazi decorati in legno in cui vivono armoniosamente il gusto antico e il contemporaneo, fino agli outfit azzeccatissimi e la cornice montana degli splendidi paesaggi norvegesi, in un’estetica da videoclip perenne che appaga l’occhio ma allo stesso tempo lo rende unico strumento possibile di approccio.

Scorticata la patina da perfezione purtroppo, di Royalteen rimane poco e niente dell’itinerario psicologico-interpersonale di sofferenza e solitudine provata da Margrethe, rendendo chiaro come l’opera di Netflix non solo abbia gettato al vento l’occasione di problematizzare la piaga delle fragili condizioni mentali e dell’abuso di psicofarmaci fra i giovani, de-stigmatizzando ad esempio la decisione di affidarsi alla competenza delle autorità sanitarie per risolverlo (cosa che non accade nel film), ma che non abbia minimatatene imparato nulla da un prodotto cugino, speculare per tematica e approccio intimista, come Young Royals, serie in cui si avverte prepotente il disagio e la costrizione angosciosa del fardello regale, prediligendo una chiave di liceale imperfezione per legare a sé un pubblico appassionatissimo di coetanei.

Eppure Royalteen, non aveva solo lo svedese Young Royals come esempio faro da cui prendere spunto, ma un altro prodotto connazionale che in sole quattro stagioni ha (ri)scritto il destino del racconto seriale per teenagers di nuova generazione: Skam, quello originale. Meglio di così.

Regia
Sceneggiatura
Fotografia
Recitazione
Sonoro
Emozione

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