Venezia 79 – Saint Omer: la recensione del film di Alice Diop
Quello della francese Alice Diop è forse il più complesso dei film in concorso a Venezia 79
Saint Omer è il nuovo film della regista francese Alice Diop, per cui questa produzione rappresenta l’esordio alla guida di un lungometraggio di finzione. Il film è stato proiettato in anteprima presso la 79° Mostra internazionale di arte cinematografico di Venezia, dove ha concorso per i principali premi.
La pellicola è stata prodotta da Srab Films: casa di opere del calibro de La scelta di Anne – L’événement, insignita della palma d’oro all’edizione 2021 della Mostra. Il suo cast è composto quasi esclusivamente da interpreti femminili e vede nel ruolo dei personaggi principali le semi esordiente Kayije Kagame e Guslagie Malanga e la veterana Valérie Dréville (Mio zio d’America). In Italia, la distribuzione è nelle mani di Minerva Pictures.
Saint Omer, ovvero la moderna Medea
Protagonista della vicenda narrata da Saint Omer è Rama (interpretata da Kayije Kagame): una giovane scrittrice di colore che, al fine di fare ricerca per la realizzazione di un adattamento moderno del mito di Medea, decide di assistere al processo di Laurence Coly (Guslagie Malanga), che avviene presso il tribunale penale di Saint-Omer.
L’imputata, anche lei di colore, è accusata di avere ucciso suo figlio di 15 mesi abbandonandolo in riva al mare. La donna non nega di avere compiuto il gesto, ma si dichiara innocente in quanto costretta ad agire in quella maniera da forze esterne. Mentre la vicenda giudiziaria procede all’interno della corte, Rama si ritrova a riflettere sul suo complesso rapporto con la propria madre.
Manifesto dolore
Tra i film presentati in concorso a Venezia, Saint Omer è forse il più complesso. Questo non per via di una sceneggiatura intricata o di una messa in scena sperimentale, anzi. L’opera della Diop è caratterizzata da una semplicità disarmante, che la fa apparire quasi spoglia. Non è presente una colonna sonora e la messa in scena è scandita da lunghe scene in cui la macchina da presa rimane immobile. Anche gli stacchi di montaggio sono ridotto al minimo indispensabile.
Si tratta di un impianto privo di qualsiasi sovrastruttura, che espone il soggetto in tutto il suo potenziale tragico. L’unico compito della cinepresa è quello di testimoniare il dolore che, grazie anche all’ottima prova delle interpreti, i personaggi espongono. Nessun filtro è interposto tra il malessere di queste donne e lo sguardo dello spettatore, che assiste proprio come se fosse anche lui all’interno di quell’aula di tribunale.
La complessità deriva dal fatto che, proprio per via di questa sua natura minimale, Saint Omer non fornisce nessun appiglio narrativo. L’elevatissimo livello di esposizione dei personaggi porta inoltre lo sguardo a scrutare sino nel profondo del loro animo, nel quale si scopre un’ulteriore enorme complessità. L’autrice espone il proprio pubblico a tutto questo perché vuole che questo formuli un suo pensiero rispetto alla vicenda. Chiede a questo di assumere il ruolo di testimone e non di giudice: non vuole che si assolva o si condanni, vuole che si comprenda.
Difficile, ma necessario
Come è facile intuire da quanto scritto nel precedente capitolo, Saint Omer è un film il cui valore commerciale è inversamente proporzionale a quello artistico. Questo non deve però scoraggiare: per quanto di difficile accesso, la pellicola garantisce un’esperienza che difficilmente trovare in prodotti pensati per essere più accessibili al grande pubblico.
Scegliendo di ignorare le esigenze del mercato e di concentrarsi unicamente sull’aspetto estetico ed artistico del progetto, Alice Diop realizza un film di notevole spessore, capace di emozionare e, allo stesso tempo, di destare domande di non facile risposta. Lo sforzo che la sua messa in scena minimale richiede allo spettatore è quindi ampiamente ripagato da quello che Saint Omer rende in termini di coinvolgimento e riflessione.