Roma FF18 – Saltburn: recensione del film di Emerald Fennell
Turba, conquista e ammalia la seconda prova al lungometraggio dell’autrice di Una donna promettente, qui alle prese con una dissacrante, torbida e coraggiosa rilettura – non ufficiale - di Ritorno a Brideshead, che tra echi Pasoliniani e Bertolucciani scopre la bellezza della follia e dell’immoralità, facendone niente meno che una cifra stilistica da questo titolo in poi immediatamente riconoscibile. Nel catalogo della 23a edizione della Festa del Cinema di Roma
Presentata in anteprima mondiale al Telluride Film Festival e poco dopo al London Film Festival, Saltburn, la seconda prova al lungometraggio di Emerald Fennell, che avrà un’uscita limitata nelle sale cinematografiche americane prima di approdare su Prime Video, considerata la coproduzione Amazon Studios e MGM, giunge fino a noi, mostrata in anteprima alla 18ma edizione della Festa del Cinema di Roma e distribuita nelle sale cinematografiche nostrane a partire dal 1° dicembre 2023 e su Prime Video dal 22 dicembre 2023.
Allontanatasi dal territorio di un certo cinema sociale e politico, del quale Emerald Fennell faceva inevitabilmente parte con il suo esordio alla regia, Una donna promettente, vincitore dell’Oscar alla Miglior Sceneggiatura Originale nel 2021, è proprio con Saltburn che la Fennell sembra voler dimostrare una volta per tutte d’essere un’autrice dall’impronta assolutamente riconoscibile, in termini di sadismo, umorismo caustico e riferimento colto ai quei maestri che hanno reso grande e unico questo particolare modo di fare cinema.
Passando per Joseph Losey, fino a Pier Paolo Pasolini e ancora Bernardo Bertolucci e Luca Guadagnino, Saltburn scava nelle ipocrisie, debolezze, ilarità e cattiverie di un’aristocrazia inglese messa in crisi da una presenza ad essa estranea, che molto deve alla letteratura di Evelyn Waugh, soprattutto al suo celebre romanzo, Ritorno a Brideshead, del quale, il secondo lungometraggio di Emerald Fennell sembra essere una rilettura non ufficiale, tanto in chiave parodistica, quanto terribilmente grottesca e tragica, condividendo con esso ben più di qualche elemento.
L’estraneo
Cos’hanno in comune Hugo Barrett (Dirk Bogarde), L’ospite (Terence Stamp), Matthew (Michael Pitt), Oliver (Armie Hammer) e ancora una volta Oliver (Barry Keoghan), rispettivamente protagonisti dei film: Il servo, Teorema, The Dreamers, Chiamami col il tuo nome e Saltburn?
Apparentemente niente. Eppure, ciascuno di questi film riflette sull’ingresso improvviso e destabilizzante – in qualche caso dolce, mentre in altri più che feroce – di una figura terza, o meglio, di un estraneo, all’interno di un nucleo familiare ristretto, ben definito e illusoriamente protetto da logiche e dinamiche emotive, non soltanto incontrastabili, ma perfino immutabili, che lo stesso ha il ruolo di scardinare, distruggendo equilibri e perfino destini, al punto tale da riscriverne passato, presente e futuro.
Laddove Joseph Losey racconta il ribaltamento dei ruoli in chiave politica, Pasolini si concentra sui taboo della sessualità, osservati anni dopo da Bertolucci e accantonati da Luca Guadagnino, che a questi preferisce il concetto di scoperta della propria identità, riflessione condotta ben oltre la semplice definizione di genere e di sessualità, dunque di anima e di reciproca appartenenza profonda.
Emerald Fennell, dimostrando una grande e sorprendente sapienza, tanto in termini registici, quanto di scrittura, si pone esattamente nel mezzo, indagando il tema della sessualità, che diviene per l’Oliver del suo Saltburn, una vera e propria arma, dapprima intellettiva, e poi, secondariamente fisica.
Con essa, il tema dell’amore conflittuale, eppure innegabile proprio perchè tangibile che può nascere tra individui dello stesso sesso, oppure differente, a partire da una inimicizia o altrimenti da un reciproco disinteressamento, destinato a mutare in dipendenza, complicità e ancora dipendenza.
Come quello che nasce tra Oliver e Felix, radicato fin da subito in un contesto sociale profondamente classista e spietato che ha inizio tra le aule e le camerate di Oxford, per poi spostarsi tra le maestose sale e le regali camere da letto di Saltburn, il castello appartenente alla famiglia di Felix Catton (un Jacob Elordi insopportabilmente attrattivo, dunque funzionale), tra le quali tutto è concesso, perfino il voyeurismo più sfrenato.
Felix, convinto di far opera di bene, invita il nuovo amico Oliver – idealmente futuro amore, seppur atipico – per un’intera estate in compagnia dell’aristocratica famiglia Cotton, la quale avvertita della condizione di miseria vissuta dal ragazzo, rimasto orfano di padre e ormai più che distante da una madre spacciatrice e dipendente dalle droghe, non può far altro che accoglierlo, considerandolo niente più che un trovatello, o peggio, un giovane senza alcuna ambizione.
Oliver però è molto distante da tutto questo e la famiglia Cotton pagherà un prezzo carissimo una volta svelate le carte in tavola, giocate da un individuo profondamente ambiguo che ci riporta al Tom Ripley di Matt Damon, ancor più infernale, sessualmente temibile e sadico, seppur amabile e in più di un momento incredibilmente divertente.
Un protagonista complesso, spigoloso, inevitabilmente fastidioso eppure attrattivo, al quale Barry Keoghan aggiunge sfumature interpretative di grande efficacia.
Da una mimica facciale mai così elaborata, ad un atipico e seducente uso del corpo, attribuibile molto più direttamente al cinema musical, che al dramma grottesco cui di fatto appartiene questo film, oscurando fin dalle primissime sequenze, perfino lo statuario Jacob Elordi, ancora una volta nei panni del bello e dannato, che la Fennell però sa come sfruttare appieno, scavando nello sguardo dell’interprete di Euphoria, perciò nella debolezza – probabilmente reale – in esso celata, scoprendo Felix.
Saltburn: valutazione e conclusione
Difficilmente ci saremmo potuti attendere un’opera così coraggiosa, violenta, sexy, dissacrante e cupa. Emerald Fennell premendo sul pedale dell’acceleratore, mette in scena una critica dell’aristocrazia inglese ai limiti della demenzialità disperata e per questo realmente feroce.
Infatti, forte di una fotografia maestosa – ulteriormente sottolineata da un 4:3 di enorme respiro -, di numerosissime prove interpretative dalla rara intensità ed efficacia e di una riflessione sugli effetti dell’amore, della dipendenza emotiva e della necessità di appartenenza, il suo secondo lungometraggio, risulta decisamente non per tutti.
Una corsa sfrenata, sfarzosa, folle e torbida, tra desiderio voyeuristico, ossessiva ricerca di contatto tra corpi e fluidi da essi scaturiti, e ancora menzogne, violenze psicologiche di ogni sorta e tombe profanate. Saltburn è un film memorabile e inaspettatamente divertente, del quale non sapevamo di aver bisogno.