Roma FF17 – Sanctuary: recensione del film con Margaret Qualley
L'opera, presente alla 17esima edizione della Festa del Cinema di Roma in concorso nella sezione Progressive Cinema, è un gioco erotico-psicologico tra due personaggi che viaggia fin troppo veloce con i colpi di scena.
Sanctuary è il secondo lungometraggio di Zachary Wigon, che torna alla regia dopo The Hearth Machine del 2014. La realizzazione, scritta da Micah Bloomberg (Homecoming, Stand Clear of the Closing Doors), esplora fortemente la dimensione psicologica dei due protagonisti, Hal e Rebecca, interpretati elegantemente da Christopher Abbott e Margaret Qualley. Centrale nel loro peculiare rapporto è un gioco inizialmente sessuale che, mano a mano che il film va avanti, si trasforma in qualcosa di più.
Sanctuary, se lavora molto bene a livello di caratterizzazione dei personaggi, mettendo continuamente alla prova gli spettatori con alcuni ribaltamenti registici ben centrati, fallisce nel suo tentativo di voler per forza stupire, barcamenandosi in un colpo di scena dopo l’altro che fa perdere l’orientamento. L’idea psicologica iniziale è perseguita fino alla fine, ma perde di mordente nel momento in cui si cambiano per l’ennesima volta le carte in tavola. Il film, prodotto da Mosaic Films, Rumble Films, Hype Studios e Charades, è in concorso all’edizione 2022 della Festa del Cinema di Roma.
Sanctuary: un gioco di ruolo meschino, ma affascinante
Sanctuary impone subito al pubblico una location piccola, claustrofobica, ma non per questo priva di fascino: è in una lussuosa stanza d’albergo che ci consuma il gioco erotico tra Hal, erede di una ricchissima impresa e Rebecca, una escort dominatrice. All’inizio il rapporto tra i due è meramente sessuale, ma, inaspettatamente, tutto cambia quando la ragazza decide di ricattare il suo cliente. Un momento centrale della pellicola che pone perfettamente le basi su quanto è ambiziosa la sceneggiatura: un copione che vuole mostrare quanto sia confortante e piacevole il mondo dell’irrealtà, dove puoi scegliere chi vuoi essere senza ripercussioni.
Ma cosa accade quando si sceglie di trasformare questa fantasia, questo gioco di ruolo perverso nella realtà di tutti i giorni? Da questo punto di vista, la scrittura dell’opera non si muove per canali già battuti e anzi, cerca a tutti i costi di ingannare lo spettatore, facendogli cambiare la sua personale prospettiva. Per arrivare ciò, è stata imposta una caratterizzazione ben precisa dei protagonisti: dei personaggi psicologicamente fragili che nonostante mostrino sicurezza, celano dentro dei solchi interiori che forse possono colmare vicendevolmente.
I dialoghi di Sanctuary, che si appropriano di più registici stilistici narrativi, dalla commedia più scanzonata a quella brillante, dal thriller adrenalinico alla love story, dettano il ritmo della pellicola: ad ogni cambio di genere corrisponde una direzione inaspettata verso la quale tende l’intero progetto, facendo in modo di proporre diverse chiave di lettura. Per facilitare la libertà interpretativa al pubblico, non è un caso che il background di Hal e Rebecca sia scarno e carente, proprio per lasciare spazio di manovra. Una scelta, che se è funzionale ed efficace per il tipo di storia che si sta raccontando, influisce sulla fruibilità della realizzazione che avrebbe necessitato di maggiore approfondimento.
Parlando della regia del lungometraggio, Zachary Wigon ha le idee ben chiare fin dalla prima scena: probabilmente nella sequenza iniziale è già racchiuso tutto il senso di straniamento e disillusione intorno al quale si sviluppa l’intero film. L’immagine rovesciata di un orologio, originata da un transizione sfocata, già dice tanto perché suggerisce, oltretutto, che l’elemento psicologico ha un valore fondamentale per la risoluzione della storia oltre ad essere un tema cardine della produzione. Per sviluppare un elemento così tanto complesso e stratificato, il cineasta ha scelto di spogliare completamente il racconto di tutti quei dettagli accessori, dare peso ad un unico luogo delle vicende, ovvero la suite di un hotel, che è un infernale limbo per la coppia di personaggi.
Troppi colpi di scena dietro l’angolo
Sanctuary, come abbiamo segnalato precedentemente, si pone come un progetto di rottura e anche dal punto di vista registico si diverte a variare le immagini, giocando sul movimento e il dinamismo anche si sta sfruttando una sola stanza. Questi continui spostamenti dei protagonisti sono accompagnati da dei colpi di scena ben precisi, ma, alla lunga, stancano la visione. Per quanto l’obiettivo iniziale era quello di scardinare le certezze continuamente, questa frequente e continua ossessione per lo stupore si ritorce contro lo stesso film, che in alcuni passaggi richiedeva probabilmente più stabilità.
Paradossalmente, infatti, questa concezione di movimento, se interessante e brillante sulla teoria, nella pratica è difficoltosa da gestire anche a livello spaziale. Per quanto si può cambiare angolazione, entrare in una stanza diversa, fare movimenti alternativi rispetto al solito, si tratta sempre e comunque di un solo luogo. Di fronte ad una dimensione isolata e disagiante, risulta difficile comprendere il continuo flusso da un punto e l’altro. Lo stesso concetto narrativo di trasformazione del contesto e della storia, se fatto in modo così massiccio e pesante rischia di far perdere la direzione allo spettatore.
Anche se appartiene ad un’idea precisa di cinema, il contenuto di Sanctuary viene fagocitato in un tira e molla intenso che, non avendo un’ancora stabile sul quale poggiarsi, prende il largo. Detto questo, la scelta di Margaret Qualley e Christopher Abbot è perfettamente in linea con la costruzione dei personaggi: se i due attori sono tarati brillantemente per la parte che gli è stata assegnata, anche la loro interpretazione, da manuale, regala parecchie sorprese. Il loro continuo cambiamento emotivo incuriosisce e al tempo stesso ammalia il pubblico e la coppia di attori ha lavorato molto bene su questa instabilità emotiva, gestendo anche in modo bilanciato l’espressività, senza mai diventare troppo eccessivi o stereotipati.
Sanctuary è un lungometraggio difficile da definire perché, nonostante abbia una precisa idea contenutistica, è frutto di troppe contraddizioni che rovinano in parte l’esperienza cinematografica. Se la caratterizzazione dei protagonisti è tarata al punto giusto così come la location centrale del film, quello che ostacola la fruizione è la scelta di un perenne movimento dei personaggi che destabilizza, perché pensato in luogo claustrofobico. Anche il tema scelto, ovvero il gioco psicologico-erotico che travalica la finzione, è affascinante, ma purtroppo si perde nei continui colpi di scena che rompono gli schemi della storia. Ottimi Margaret Qualley e Christopher Abbott, che dominano lo schermo.