Santana: recensione del film action angolano Netflix
Dall’Angola un action-movie derivativo e con grossi limiti strutturali, le cui uniche note positive si registrano nelle sequenze dinamiche. Disponibile su Netflix dal 28 agosto.
Il film che non ti aspetti dalla cinematografia che non ti aspetti; questo è Santana. In effetti per quanto si provi a scavare nella memoria, il ricordo di precedenti nel campo dell’action-movie made in Angola fa davvero fatica a tornare a galla. Di conseguenza, la curiosità iniziale nei confronti di un prodotto di genere nato e concepito (in co-produzione con il Sud Africa) nel e dal ventre di una nazione che di suo non ha un passato, tantomeno una tradizione alle spalle nella Settima Arte e nell’audiovisivo in generale, dobbiamo dire che era piuttosto elevata. Ed è stata proprio la curiosità a guidarci nella visione su Netflix, laddove la pellicola scritta e co-diretta da Maradona Dias Dos Santos e Chris Roland, è approdata lo scorso 28 agosto.
Su Santana si abbatte la dura legge non scritta del vorrei ma non posso
Poi come accade spesso in questi casi è lo schermo a rompere l’incanto e anche le uova nel paniere, palesando tutti i limiti di un’operazione derivativa che guarda con invidia al mercato internazionale e strizza l’occhio a quello a stelle strisce nel disperato tentativo di emularlo, senza avere fatto veramente i conti con se stessa e con il suo reale potenziale. Guardando Santana si assiste al vorrei ma non posso, quello di chi ha voluto fare il passo più lungo della gamba. Il fatto di aver realizzato un prodotto simile, per di più un Paese come quello dell’Africa meridionale nel quale il cinema è stato e resta un miraggio, è un atto di coraggio e una sfida. Da questo punto di vista si tratta di una vittoria, che magari potrebbe aprire nuove strade alla cinematografia locale, ma per il momento quello alla quale abbiamo assistito sulla piattaforma statunitense è un film strutturalmente debole, povero in termini di originalità e con grandi lacune sul versante delle performance attoriali. Fragilità e mancanze che a conti fatti hanno generato crepe vistose e insanabili.
Intrighi, loschi affari, vendetta e legami biologici, al servizio di un film assai derivativo
La storia di due fratelli agli antipodi, entrambi poliziotti, che vedono le rispettive strade incrociarsi durante un’operazione per smantellare un grande traffico di droga, è fin troppo elementare e ampiamente codificata. Nulla che non si sia già visto in circolazione e che non mostra nessun segnale di slancio nemmeno quando Matias (Raul Rosario) e Dias (Paulo Americano) finiscono con lo scoprire che lo spietato boss al quale danno la caccia, tale Ferreira (Rapulano Seiphemo), è lo stesso uomo che ha ucciso i loro genitori quando erano bambini. Infatti, Santana si apre proprio 35 anni prima gli eventi narrati con un brutale doppio omicidio di fronte agli occhi del fratello maggiore. Da qui ci troviamo in un battito di ciglia proiettati nel presente, alle prese con gli sviluppi delle indagini che portano dirette allo spietato boss di turno, in una maionese impazzita di intrighi, legami familiari e vendetta. Il tutto condito con qualche sequenza hot, piazzata qua e là nella timeline per distogliere lo sguardo e le orecchie del pubblico dalle falle e dalla pochezza narrativa e drammaturgica dello script.
Le poche scene d’azione degne di nota sono le uniche note positive di Santana
A tappare i buchi ci pensano le poche scene d’azione davvero degne di nota (il blitz nel magazzino di Mutamba e il doppio assalto dei mercenari nelle case di Matias e Dias), laddove l’adrenalina e lo show balistico permettono ai registi quantomeno di timbrare il cartellino. Lo stesso che andrebbe mandato al macero una volta assistito all’epilogo ambienta in Sud Africa, nel quale Santana mostra il peggio di sé. Dalla componente dinamica presente nella timeline si può dunque ricavare qualche nota positiva, ma anche qui bisogna andare a cercarle con la lente d’ingrandimento nei 106 minuti a disposizione.