Savage Grace: recensione del film con Julianne Moore
New York, 1946. È da qui che parte la storia della famiglia Beakeland. Barbara è un’ex starlette piuttosto arrivista. Brooks è il nipote del chimico che ha costruito la sua enorme fortuna sull’invenzione della bachelite. I due non potrebbero essere più diversi; se da una parte lei appare priva di freni inibitori e incapace di comportarsi in modo socialmente accettabile, lui è invece rigido e distaccato e costantemente schiacciato dal peso del cognome che porta. A pagare le conseguenze delle divergenze di questa coppia così male assortita, è il loro figlioletto Anthony che risulta la vera vittima dell’instabilità dei coniugi Beakeland. Il piccolo cresce infatti senza una figura adulta davvero matura, circondato dall’amore morboso di una madre decisamente troppo invadente e dalla freddezza di un padre che non riesce a ricoprire in modo adeguato il suo ruolo.
Savage Grace di Tom Kalin è il ritratto della decadenza di una famiglia allo sbando i cui membri hanno totalmente perso il contatto con la realtà. Il loro spostarsi di città in città in giro per il mondo dimostra la loro incapacità di trovare un equilibrio. Dall’America alla Francia, poi in Spagna e in Inghilterra, i Beakeland si trasferiscono di continuo non comprendendo che la causa della mancanza di pace e serenità nelle loro vite non dipende dal luogo in cui vivono, ma dal loro essere instabili psicologicamente.
Savage Grace: il ritratto della decadenza famigliare dipinto da Tom Kalin con Julianne Moore, Eddie Redmayne e Stephen Dillane
Tutta questa instabilità psicologica è particolarmente evidente dal modo in cui i tre gestiscono la loro sessualità. Barbara è una donna piuttosto libertina che non ha paura di varcare i confini della decenza e della morale. Brooks vive il suo rapporto con il sesso in modo davvero ambiguo e (per usare un eufemismo) scorretto, dato che soffia al figlio il suo primo vero interesse amoroso. Anthony è invece colui che sviluppa la sessualità più incerta. Il ragazzo infatti si invaghisce inizialmente della coetanea Blanca, ma poi incomincia a provare una forte attrazione nei confronti degli uomini.
I tre personaggi e le loro turbe sono rese molto bene dall’ineccepibile interpretazione degli attori protagonisti, fra cui spicca in particolare quella di Julianne Moore nel ruolo di Barbara. La Moore riesce infatti a rendere credibile il personaggio della madre morbosa ed evidentemente squilibrata dal punto di vista mentale. L’attrice dà vita ad una donna che potrebbe inizialmente apparire una femme fatale molto sicura di sé, ma che in realtà nasconde una grande fragilità e la costante paura di essere abbandonata. La cosa è abbastanza evidente dalla reazione che la donna ha in seguito alla separazione dal marito. Ciò che infastidisce maggiormente Barbara non è infatti il tradimento in sé, ma il fatto che sia stata lasciata sola e che a questo punto sia costretta a trovare autonomamente il suo posto in società.
Altrettanto meritevole è l’interpretazione di Eddie Redmayne che dimostra una grande maturità recitativa e la capacità di non farsi oscurare dalla brillante interpretazione di Julianne Moore. Il personaggio di Anthony è davvero ben costruito e il giovane attore inglese, che all’epoca era appena al suo terzo film per il grande schermo, riesce adeguatamente a rendere le incertezze di un ragazzo che non riesce a raggiungere una sua stabilità emotiva e a costruire una sua identità. Stephen Dillane (per chi non lo avesse riconosciuto, lo Stannis Baratheon di Game of Thrones) riesce perfettamente a calarsi nei panni un personaggio che potremmo definire un vero e proprio inetto. L’uomo non è capace di gestire la sua consorte, di crescere suo figlio e neanche di reggere il confronto con i suoi antenati. Sceglie per questo la via più facile, quella della fuga. Una fuga che però ha come conseguenza il crollo definitivo di quel precario castello di carte che è la sua famiglia.
Savage Grace è un film che colpisce e in alcuni punti sconvolge lo spettatore. La pellicola è tratta da un romanzo scritto da Natalie Robins e Steven M.L. Aronson ispirato a fatti realmente accaduti. È forse per questo che la storia narrata appare ancora più disturbante e induce a riflettere su quanto a volte l’apparenza inganni e che dietro la facciata di benessere materiale possa nascondersi un vuoto incolmabile che dilania l’anima e può portare a compiere le azioni più impensabili.