Sayen: recensione del film Prime Video
Recensione del revenge film uscito su Prime Video a marzo 2023
Sayen è il secondo lungometraggio di Alexander Witt, direttore della fotografia, operatore di macchina e regista di seconda unità di comprovata esperienza (ha spesso lavorato, fra gli altri, con Ridley Scott).
Mapuche-Revenge
Prodotto da Fabula, in collaborazione con Casting Call for Movies e Prime Video, il film è un action che vorrebbe traslare l’estetica e l’etica postfemminista e progressista della Hollywood contemporanea nel contesto delle lotte anticolonialiste dei Mapuche. Il popolo amerindio, originario del Cile centromeridionale e dell’Argentina, ha infatti dovuto lottare per secoli contro varie forme di colonizzazione, soprattutto contro quella dei conquistadores spagnoli. Durante il Novecento il governo fascista cileno di Pinochet prima e quello democratico dopo hanno intrecciato i propri interessi con varie multinazionali americane ed europee (fra cui anche l’italiana Benetton), portando avanti vergognose pratiche di espropriazione e vendita forzata delle terre dei Mapuche, che continuano tuttora.
Il lavoro di Witt prende spunto in maniera superficiale da questa travagliata storia, per presentare la battaglia che la giovane Sayen (Rallen Montenegro), ragazza Mapuche appena tornata in Cile, deve intraprendere contro una multinazionale spagnola. Quest’ultima, attraverso una facciata eco-friendly, cerca di accaparrarsi le terre dove abita la tribù della nonna di Sayen, Ilwen (Teresa Ramos), perché ricche di cobalto. Sayen è l’unica guerriera donna della sua comunità. Quando Antonio Torres (Aròn Piper), figlio del CEO della multinazionale, con la complicità di una banda di mercenari, uccide Ilwen, la battaglia della ragazza diventa letterale e il film prende la piega di un Revenge (Fargeat, 2017) dai toni più edulcorati.
L’assenza del corpo e la semplificazione etica
Sebbene la messa in scena sia impeccabile, l’intera operazione risulta poco convincente per due motivi. Il primo è di ordine estetico. Gli action basati sulla vendetta, ruotano attorno al concetto di corpo violato e, nel bene o nel male, fanno della rappresentazione di una corporeità esibita il punto cardinale immaginifico, su cui costruire l’impalcatura drammatica/estetica del prodotto. Si pensi al già citato Revenge, alla centralità della fisicità della protagonista in Non violentate Jennifer (Zarchi, 1978) o, per converso, alla rappresentazione quasi eterea del corpo “marziale” di Beatrix Kiddo in Kill Bill (Tarantino, 2003), scomposto in dettagli specifici (mani, piedi, bocca e occhi). Ancora, sul versante maschile, si pensi alle ferite inferte ed esibite in John Wick (Stahelski, 2014) o al corpo di Brandon Lee, martirizzato, emaciato e reso fantasmatico ne Il corvo (Proyas, 1993). In Sayen questo aspetto è stato volutamente rimosso. Per la verità si prova ad accennare, in termini narrativi, a una sorta di metafora fra la violazione della foresta e quella del corpo sociale della tribù Mapuche (di cui Sayen è un organo, per così dire) che vive in simbiosi con quest’ultima, ma ciò non genera immagini d’impatto. La foresta viene ripresa in maniera molto convenzionale, secondo i canoni di una wilderness romanticizzata, in opposizione al progresso tecnocapitalista militare. Invece l’immagine della violenza risulta anestetizzata proprio dalla volontà di non concentrare lo sguardo filmico sugli elementi corporei – sangue, ferite, muscoli etc… – e sulla loro spettacolarizzazione. D’altronde questo tipo di action è un genere spettacolare per definizione. Privarlo di questo elemento significa depotenziarlo, rendendolo noioso o traslarlo in una dimensione da dramma intellettuale. In questo caso si verifica la prima opzione, poiché Witt pur cercando di non conformarsi ai canoni hollywoodiani della rappresentazione della violenza, prova a mantenere una sintassi narrativa da action attraverso il montaggio serrato e il largo impiego di stunt, mentre utilizza gli spunti politici e sociali solo come funzioni narrative stereotipate. Infine la cultura Mapuche è mostrata attraverso scene pedagogiche che ne descrivono usi e costumi come in un documentario per turisti.
Quest’ultimo elemento ci porta al secondo problema del film. Ingabbiare un tema come quello attuale della lotta dei Mapuche, all’interno dello schema dell’action revenge spinge verso un’eccessiva semplificazione delle questioni in ballo, quali l’ecowashing del capitalismo gentrificatore,la condizione femminile nelle culture amerindie, i crimini del governo cileno e delle multinazionali europee.
Sayen: conclusioni e valutazione
La fotografia regge bene ma è troppo anonima. Il montaggio è funzionale, la recitazione delle star coinvolte è di mestiere. Peccato perché la regia, nonostante tutto, è valida. L’operazione estetica di riformulazione dell’action revenge avrebbe potuto funzionare se Witt avesse approfondito le tematiche accennate o se avesse osato di più in termini estetici. Insomma l’idea di usare l’immaginario hollywoodiano per creare delle contro-mitologie rispetto a quelle dominanti, non è per niente da buttare. A patto però di crederci davvero e non cedere a superficiali mode falsamente progressiste, che in realtà fanno il gioco dell’immaginario capitalista globalizzato, attraverso una sua apparente negazione.