Sbatti il mostro in prima pagina: recensione del classico restaurato di Marco Bellocchio

Marco Bellocchio dirige, Gian Maria Volonté e Laura Betti interpretano. Sbatti il mostro in prima pagina, classico restaurato del 1972, è una riflessione potente e molto attuale sui rapporti tra potere e informazione. Dopo il trionfo a Cannes Classics, di nuovo in sala il 4 luglio 2024.

Ancora una volta, è da Cannes che passa il cinema di Marco Bellocchio. Restando sugli ultimi (al momento in cui si scrive) cinque anni indaffarati, dalla Croisette vengono: la biografia di un famigerato protagonista dell’Italia criminale (Il Traditore, 2019); il documentario confessione a metà strada tra intimità e ideologia (Marx può aspettare, 2021); l’affresco storico-umano-politico al guado tra cinema e serialità (Esterno Notte, 2022); il dramma in costume “ereditato” da Spielberg (Rapito, 2023). Per il 2024 bisogna guardare dalla parte di Cannes Classics, con la versione restaurata (e molto applaudita) di un classico che lo stesso regista per anni ha messo un po’ da parte, perché faticava a sentirlo suo (si vedrà poi perché). È del 1972 e si chiama Sbatti il mostro in prima pagina, ha per protagonisti Gian Maria Volonté, Laura Betti, Fabio Garriba, Jacques Herlin, Massimo Patrone. Se ne parla, qui – è la una bella notizia, il cinema italiano che riscopre se stesso – perché torna in sala il 4 luglio 2024 per 01 Distribution in collaborazione con Minerva Pictures.

Sbatti il mostro in prima pagina: un caso di cronaca nera manipolato per fini politici

Sbatti il mostro in prima pagina cinematographe.it recensione

È servito un po’ di tempo, a Marco Bellocchio, per familiarizzare con Sbatti il mostro in prima pagina anche perché il film, per diritto di nascita, non gli apparteneva. Lo ha diretto, lo ha scritto anche, insieme a Goffredo Fofi, anche se sarebbe meglio dire che lo ha riscritto. L’idea di partenza era di Sergio Donati – sceneggiatore e scrittore, il suo sodalizio forte all’epoca era con Sergio Leone – che doveva occuparsi della regia ma sorsero problemi con la produzione (c’è chi dice con Gian Maria Volonté) e il progetto passò di mano. Finendo sul tavolo del regista di Bobbio, che all’epoca era al quarto film ma in un certo senso si trovò di fronte a un nuovo esordio. Sbatti il mostro in prima pagina è un lavoro su commissione. Ha raccontato, Bellocchio, parlando con i giornalisti, di averlo riscoperto, rivalutato, guardandolo restaurato. L’autore, per deformazione professionale, non lavora che su progetti su cui può esercitare totale controllo, o una parvenza di controllo. Il gioco, qui, dipendeva da regole scelte da altri, precedentemente. Nonostante tutto, Sbatti il mostro in prima pagina è un film di un certo rigore quando si tratta di conformarsi al senso del cinema di Marco Bellocchio. In un modo che forse al suo autore sfuggì all’epoca. E invece oggi emerge con chiarezza.

Strutturalmente, è un’inchiesta spezzata in due tronconi. C’è il giallo, l’indagine poliziesca standard – muore una ragazza, bisogna scoprire chi è stato – filtrata dall’attività febbrile della redazione di un giornale. E accanto la riflessione, inquietante e attuale nella sostanza, su potere, informazione e cattiva informazione. Sbatti il mostro in prima pagina è un film del 1972, l’anno del successo alle elezioni politiche dell’estrema destra di Giorgio Almirante e del MSI (Movimento Sociale Italiano). E l’anno del trionfo a Cannes (il Festival c’entra sempre) del miglior cinema italiano d’impegno civile, con la storica doppietta La classe operaia va in paradiso (Elio Petri) e Il caso Mattei (Francesco Rosi). Protagonista di entrambi, non è un caso, Gian Maria Volonté. In Sbatti il mostro in prima pagina è il cinico, spregiudicatissimo Giancarlo Bizanti. Redattore capo al Giornale, quotidiano di destra con sede a Milano che non va confuso con Il Giornale, quello vero, che nascerà soltanto due anni dopo, nel 1974, per iniziativa di Indro Montanelli.

In combutta con il grande capo Montelli (John Steiner), Bizanti ha un’idea. Strumentalizzare un caso di cronaca nera, il delitto a sfondo sessuale della studentessa Maria Grazia Martini (Silvia Kramar), per accusare del delitto – grazie alle rivelazioni del bidello (Massimo Patrone) della scuola frequentata dalla ragazza – un militante della sinistra extraparlamentare (Corrado Solari), con l’intento di colpire e screditare la sinistra in vista delle elezioni. Bizanti le tenta tutte: fa “commissariare” l’onesto e idealista Roveda (Fabio Garriba), l’emotivo redattore con un’anima, mettendogli accanto, per sviare e confondere, il collega più anziano e compromesso, Lauri (Jacques Herlin). Approfitta della fragilità emotiva di Rita Zigai (Laura Betti), la compagna dell’accusato, lavorando biecamente sulla differenza d’età nella coppia – lei è un po’ più grande – per seminare il dubbio e screditarlo definitivamente. Capita però che Roveda finisca per trovare l’assassino, quello vero, costringendo Bizanti a prendere una decisione. E il dialogo finale, tra l’editore e il redattore capo, è un capolavoro di vuoto morale, cinismo e spudoratezza politica. Pericolosamente attuale.

Passato e presente, potere e informazione, senza scordare Gian Maria Volonté e Laura Betti

Sbatti il mostro in prima pagina cinematographe.it recensione

Il gioco di sponda tra passato e presente è un esercizio di pigrizia critica e scarsa immaginazione, ma si stratta sempre di un film del 1972 che torna in sala nel 2024 e qualcosa da dire c’è. Del clima, plumbeo e polarizzato, di quegli anni ’70, resta poco o niente. Resta l’impressione di apocalisse incombente, allora però – e il film lo mostra chiaramente – temperata da una volontà di fare, di intervenire, da un clima di impegno militante, di fervore attivista, oggi scomparso e rimpiazzato da un’estremizzazione delle posizioni e dei discorsi accompagnata a una molle rassegnazione. Sbatti il mostro in prima pagina è l’esatto contrario, è un film febbrile, nervoso, dai dimessi toni grigio verdi – da ricordare la colonna sonora elettronica e cupamente incalzante di Nicola Piovani – ma scosso da un finale sconcertante per potenza emotiva, morale e simbolica. Punteggiato dalle straordinarie, non si esagera, straordinarie interpretazioni di due attori che al cinema italiano mancano, mancano tanto.

Vale la pena di cominciare – perché è lo stesso Marco Bellocchio a farlo presente – con Laura Betti, grande e un po’ trascurata, nella passionalità nervosa e nel temperamento sanguigno della sua Rita. E poi c’è Gian Maria Volonté, Bizanti emanazione di un Potere che sostiene e riverisce con inquietante cinismo e gran scrupolo. Maltratta la moglie Carla Tatò perché si conforma allo standard di ingenuità (diciamo così) del lettore medio del quotidiano, ricordandoci che non c’è crimine che venga dall’alto che possa compiersi senza una placida, passiva collaborazione (leggi, disinteresse e niente spirito critico) della società civile. Bizanti è l’intemediario tra il lato umano del film, privato – il giallo, l’inchiesta – e il versante politico, la riflessione sulla manipolazione del pensiero e dell’opinione pubblica attraverso una sistematica campagna di disinformazione. La stampa al servizio del potere; non le chiamavano fake news all’epoca, ma il senso è lo stesso.

Quello che retrospettivamente colpisce, di Sbatti il mostro in prima pagina, oltre alla purezza di una narrazione che non disperde il suo potenziale e non cede alla retorica, è la capacità di stare in sincrono con il suo presente, di cui è un’istantanea molto accurata. C’è, se non tutto, molto, di quegli anni lì e del clima di guerra civile sotto mentite spoglie. Dalla strage di piazza Fontana alla tragica morte dell’editore Giangiacomo Feltrinelli (riprodotti i funerali), dai richiami alla vicenda dell’anarchico Pietro Valpreda (accusato ingiustamente della strage) al caso Milena Sutter, la tragica morte che ispirò il caso di cronaca nera raccontato dal film. Per finire con il comizio del giovane militante di destra Ignazio La Russa, oggi Presidente del Senato, che invitava a “riconsiderare” la dialettica tra fascismo e antifascismo, soprattutto sbarazzandosi del secondo. Cronache di ieri, ma che rimangono scandalosamente attuali.

Sbatti il mostro in prima pagina: valutazione e conclusione

Marco Bellocchio
Foto Anna Camerlingo

Marco Bellocchio ci ha messo un po’ a fare amicizia con Sbatti il mostro in prima pagina. Eppure il film gli appartiene totalmente, perché è la storia di una famiglia (qui politica, morale, civile) lacerata da divisioni forse insanabili, indagata restituendone la complessità umana, ideologica. In bilico tra i generi, Sbatti il mostro in prima pagina ammicca (senza aderire totalmente) all’etichetta di cinema d’impegno civile e al tempo stesso si serve della forma narrativa giallo per portare avanti le sue riflessioni, nella sostanza tremendamente attuali, sui rapporti tra verità, potere e informazione.

Allo scopo, va fissata nella memoria la sconcertante, ma potente lezione di giornalismo al contrario di Bizanti/Volonté che boccia il titolo scelto per un pezzo dal redattore idealista Roveda/Garriba. ““Disperato gesto di un disoccupato: si brucia vivo padre di 5 figli” non va bene, perché è troppo brutale, troppo drammatico, troppo vicino a una scomoda verità (sociale). Meglio modificarlo, suggerisce Bizanti, in “Drammatico suicidio di un immigrato”: più impersonale, più intimo, più innocuo. Non è cambiato poi molto. Sbatti il mostro in prima pagina ha retto il confronto con il tempo. Per una volta, è una brutta notizia.

Regia - 4
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 4
Recitazione - 5
Sonoro - 4
Emozione - 4

4.2