Scene da un matrimonio: recensione del film di Igmar Bergman
La recensione di Scene da un matrimonio del 1973, uno dei capolavori per il grande schermo di Ingmar Bergman.
Scene da un matrimonio nasce in uno dei momenti di snodo più stimolanti della carriera e della vita di Ingmar Bergman, il che l’ha portato ad essere un lavoro dotato di una potente valenza simbolica sotto diversi punti di vista. Da sempre è stato nelle corde del maestro svedese vivere il suo processo creativo e la sua vita privata senza alcun tipo di filtri, ma, anzi, cercando quasi in maniera autodistruttiva una contaminazione sempre più forte, spinto dalla voglia concreta di realizzare una totalizzante opera autobiografica, traguardo raggiunto con Fanny e Alexander, l’ultimo suo lavoro per il cinema.
Se decidiamo di considerare la pellicola del 1982 come un punto di arrivo, il completamento di questa lunga parabola creativa, Scene da un matrimonio è probabilmente il vero primo passo quanto meno verso la convinzione di poter intraprendere questo nuovo percorso artistico.
Diviso tra il lavoro in televisione e quello per il cinema, Bergman, proprio alla fine degli anni 60, vive un’intensa storia d’amore con l’attrice Liv Ullmann, con cui ha anche una figlia, che lo porta a divorziare per la quarta volta e a risposarsi per la quinta proprio all’inizio del nuovo decennio. In questi anni, come suo costume, il maestro svedese scrive uno sceneggiato lunghissimo, inizialmente previsto come ciclo di sei episodi per la televisione e poi riadattato per il grande schermo, mantenendone la struttura, ma riducendone il minutaggio (si passa da circa 294 minuti a 167). La pellicola parla di una crisi matrimoniale dalle forti tinte autobiografiche e la protagonista femminile scelta da Bergman è proprio la Ullmann, chiamata alla sua prova attoriale più importante per la quale si aggiudicherà due anni dopo il “nostro” David di Donatello, affiancata da un sensazionale Erland Josephson.
Il film esce nel 1973, vincerà il Golden Globe come miglior film straniero e avrà un sequel televisivo che uscirà a 30 anni di distanza dal titolo di Sarabanda, in cui i due protagonisti riprenderanno i medesimi ruoli.
Scene da un matrimonio: Marianne e Joan
Rispettando la divisione originaria di sei capitoli: “Innocenza e panico”; “L’arte di nascondere lo sporco sotto il tappeto”; “Paola”; “Valle di lacrime”; “Gli analfabeti” e “Nel pieno della notte in una casa buia in qualche parte del mondo”, ci viene raccontata la vicenda matrimoniale di Marianne e Joan. Entrambi sulla quarantina, benestanti, due figlie, due lavori appaganti e ben retribuiti e già da dieci anni insieme, legati da un matrimonio sereno, persino felice, e forti di una convivenza e una routine coniugale assolutamente collaudata. Poco male se alla base della loro unione sia difficile cogliere un aspetto che non sia razionale.
Ad una introduzione premonitoria articolata nella scena della cena, teatro del litigio della coppia dei loro migliori amici, e nel significativo colloquio in cui si esplica come la mancanza di amore sia un peso insostenibile per qualsiasi rapporto, arricchito da una precisa messa a fuoco da parte di Marianne del problema di coppia in una incapacità comunicativa, segue l’annuncio improvviso di Joan di essersi innamorato di Paola, una sua studentessa, di tradire la moglie da tempo e di essere intenzionato ad abbandonare la sua famiglia per partire con la ragazza. Nel momento della crisi appare però possibile un ribaltamento dei ruoli, in cui è la vittima a fare la prima mossa, spinta da colei che invece sembra subirla e che poi, in realtà, ne beneficerà.
Joan, da colui che tira le fila della crisi matrimoniale, si rivela essere un uomo piccolo, frustrato, egoista e vittima della trappola dell’ambizione. Fortemente egocentrico e autoreferenziale, destinato inesorabilmente a pentirsi della decisione presa. Marianne è al contrario una donna che vive costantemente protesa al di fuori di sé, abituata trasformarsi e a rinnegarsi per gli atri, salvo rivelarsi un tiranno nella vita sessuale. Forse spinta da un desiderio inconscio di emancipazione o forse realmente vittima della sua acerba autoconsapevolezza, la donna trova il suo passo nella separazione dal Joan, ridotto ad un giocattolo, più volte sedotto e poi spinto ad un’umiliazione che culmina nel momento di un divorzio violento.
Eppure, in questo cammino opposto, capita ai due di rincontrarsi di nuovo, nel pieno della notte in una casa buia in qualche parte del mondo.
Vent’anni di matrimonio
Bergman concepisce il suo trattato sul matrimonio partendo da un esempio di vita coniugale già avviato, con le sue criticità e le sue caratteristiche, decidendo di posizionare sotto la sua lente il funzionamento artificioso della coppia. Solo nel momento rivelatorio della crisi si innesca la costruzione di nuovo legame che mostra i coniugi per la prima volta al pubblico come persone singole e che da persone singole ricostruiscono un rapporto autentico, germogliato nel burrascoso dedalo di emozioni primordiali, piegato solo dalle onde del conoscersi, votato alla continua ricerca di se stessi e impossibile da tenere sotto controllo con un qualsiasi tipo di relazione stabile.
L’amore impossibile di bergmaniana concezione si orienta dunque su un nuovo canale comunicativo, nato paradossalmente proprio dalla decisione di cessare il dialogo, che fa vibrare le corde passionali ed esistenziali più profonde seguendo i dettami dell’evoluzione della conoscenza del proprio Io dei protagonisti, il cui singolo sviluppo regola e condiziona l’altro, nell’imperfetta e pedissequa danza di un amore reale. La lingua che ora parlano è quella legata al momento: urla, veleni, rimorsi e rimproveri, ma anche sogni, sesso e passioni.
In questa vivisezione quasi saggistica della storia di Joan e Marianne, Bergman ricorre ad una narrazione improntata sua una verbosità bulimica, abusando della forma del dialogo tra i due personaggi, ogni volta riinvitati a prendere parte ad un appuntamento con loro stessi, mentre gli anni passano e il loro rapporto cambia. L’esasperazione della ricerca dell’intimità porta ad avere una pellicola di quasi solo interni e di quasi solo ed esclusivamente primi piani o piani stretti, anche quando vengono adoperati dei mini piani sequenza. Una dimensione che sfiora quella radiofonica e che sposa decisamente quella teatrale, la cui riuscita è garantita da una scrittura straordinaria e una recitazione perfetta.