Se solo fossi un orso: recensione del film di Zoljargal Purevdash

Il primo film mongolo in concorso al Festival di Cannes.

Se solo fossi un orso è il film d’esordio della regista mongola Zoljargal Purevdash. L’opera, presentata al Festival di Cannes 2023, nella sezione Un Certain Regarde, è il primo film mongolo a sbarcare sulla Croisette e dal 14 marzo arriva in sala grazie a Trent Film.

Se solo fossi un orso Cinematographe.it

Zoljargal Purevdash si è formata, cinematograficamente, a Tokyo, all’Università di Oberin, ma non ha mai abbandonato le proprie radici mongole, tanto che attualmente vive a Ulan Bator, proprio nel distretto delle iurta, dove il film è ambientato.
Le iurta sono le tende entro cui vivono i nomadi, che spesso arrivano a Ulan Bator in cerca di un lavoro e condizioni di vita migliori. Purtroppo però queste ultime raramente arrivano e così alla periferia della città, vicino a case e palazzi normali, si è formato una sorta di campo nomade, dove la mancanza di sistemi di riscaldamento e infrastrutture rende le condizioni di vita terribilmente precarie. La gente lì è costretta a bruciate carbone e legna, spesso ottenuta da azioni di disboscamento illegali, per evitare di subire le temperature invernali proibitive. Tali pratiche hanno come conseguenza un aumento dell’inquinamento atmosferico, già elevato e creano problemi di salute a tutta la comunità.

Se solo fossi un orso: dal rapporto fra madre e figlio alla critica al green washing

In un simile contesto socioeconomico Purevdash ambienta la storia del giovane Ulzii e della sua famiglia. Il padre del ragazzo è morto e la madre, ex alcolizzata, stenta a mantenere la famiglia. Ulzii si fa carico della responsabilità di portare avanti la baracca, accudendo i fratelli e la sorella minore. Inoltre essendo versato nello studio della fisica, si prodiga per cercare di vincere una borsa di studio, grazie a dei concorsi nazionali di fisica per gli studenti delle superiori. La vicenda evolve attraverso il conflitto con la madre, che non riesce ad adattarsi alla vita cittadina e alla modernità.

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Ma gli argomenti messi sul piatto sono molteplici. Vi è il rapporto tra tradizione e progresso appunto, che suggerisce una chiave di lettura per la realtà sociopolitica mongola e, più in generale, per tutte quelle società combattute fra il nuovo assetto tecnologico del capitalismo neoliberista e radici ancestrali legate a credenze come la reincarnazione – anche degli animali, come viene esplicitato in una sequenza commovente, in cui Ulzii perde il suo cane. Questo contrasto fa emergere tutte le contraddizioni delle prospettive progressiste del sistema economico. Da un lato, infatti, esso si fa alfiere di cambiamento e possibilità insperate, ma, dall’altro, ristabilisce, attraverso la diffusione del divario fra classi sociali e la conseguente povertà, la necessità di legarsi a credenze e tradizioni, che garantiscano un’identità comunitaria, prodromo anche di una certa solidarietà. Poi c’è la questione ecologista, strettamente collegata. La regista senza mezzi termini accusa il sistema di green washing in atto un po’ ovunque, senza però negare l’esistenza dell’inquinamento e dei problemi di salute che esso crea. Il film è pieno di inquadrature metaforiche che legano il paesaggio di Ulan Bator, sopraffatto dai fumi della combustione, al respiro dei giovani protagonisti, che spesso si ammalano. In una scena significativa, Purevdash mostra come l’ipocrita soluzione green/istituzionale sia quella di fornire, a gente che non ha neanche il carbone per scaldarsi a -35 gradi, un filtro per il fumo. La posizione dell’autrice è chiara : “Ciò che respiriamo non è fumo, è povertà.” (Dichiarazione di Zoljargal Purevdash).

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Infine un altro macrotema trattato dal film è il rapporto fra genitori e figli. In questo caso fra una madre incapace, non per cattiveria, ma per fragilità e mancanza di cultura e un figlio che si trova a crescere troppo presto e che, al contempo è mosso da una fiducia sconfinata nel sogno dell’autodeterminazione attraverso lo studio – per la verità questo elemento risulta un po’ retorico, in quanto raramente tanto efficace nella realtà, quanto nella finzione filmica.

Se solo fossi un orso: valutazione e conclusioni

Se da un punto di vista contenutistico il lavoro della Purevdash affonda le sue radici nella realtà umana e sociale mongola, da un punto di vista estetico, si nota la formazione giapponese dell’autrice. La composizione dell’immagine è molto rigorosa, fatta principalmente di inquadrature che giocano sulle astrazioni delle architetture urbane e naturali. I personaggi sono spesso inseriti all’interno di cornici composte da elementi scenici, così da dare il senso di un ambiente che quasi imprigiona le ambizioni e i sogni dei protagonisti. Si sente l’eco del cinema di Ozu nell’uso significativo di primi piani e campi lunghi, in grado di generare sempre un movimento visivo, che trasporta lo spettatore continuamente da un piano soggettivo – i sentimenti dei protagonisti – ad un piano più oggettivo – la descrizione socioantropologica e ambientale.
In definitiva quest’opera prima, al netto di qualche ingenuità, merita la visione e fa ben sperare per il futuro dell’autrice.

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 4
Recitazione - 3
Sonoro - 3.5
Emozione - 3.5

3.4