Seconda primavera: recensione
Chi lo dice che la vita è un susseguirsi di occasioni perse? E se, un giorno, riuscissimo ad afferrare il bello di tutto questo? Come facciamo a dimenticarci, ogni fine settembre, che il tempo passa veloce e la primavera successiva arriverà prima di quanto ci si aspetti?
La nuova pellicola di Francesco Calogero (La gentilezza del tocco, Metronotte) ha un titolo che non può far altro che infondere speranza: Seconda primavera racconta un lasso di tempo coperto dal susseguirsi di sei stagioni (partendo dall’inverno per arrivare alla primavera del ciclo successivo), ognuna delle quali funge da incipit per narrare un episodio, un personaggio, uno stato d’animo, uno stadio della vita umana.
Seconda primavera: quattro personaggi in cerca di felicità
Con questo film, il regista messinese porta a termine una vera e propria impresa nel costruire pezzo dopo pezzo una sceneggiatura che non appare mai banale, stracolma di citazioni letterarie ed artistiche che spaziano dal mondo classico a quello post-moderno e che hanno un fine ben preciso.
Senza mai cadere in mero narcisismo, i personaggi diventano realtà tangibile del pensiero dell’autore, interagendo tra le righe di una storia nella quale non c’è spazio per il superfluo.
I quattro personaggi cardine della pellicola hanno confini ben definiti: Andrea è un architetto cinquantenne che si porta sulle spalle gli strascichi della morte di sua moglie Sofia incinta di 8 mesi. Tra le possibili acquirenti della sua villa in riva al mare c’è Rosanna, una dottoressa che ha da poco spento 40 candeline, sposata con un giovane aspirante (ma non talentuoso) scrittore di nome Riccardo. A svegliare Andrea dal torpore che lo tiene da anni sull’orlo della depressione è l’avvenente Hikma, magrebina 20enne nonché sorella di un suo cliente ristoratore.
I sottosviluppi non sono difficili da immaginare ed anche se, a parlarne così, sembra una rom-com americana anni ’80, sappiate che è proprio la sua finta semplicità che rende prorompente il ruolo di una sceneggiatura che verte intorno ai suoi personaggi succhiando fino al midollo i loro malesseri, le loro preoccupazioni, fino a trovare la forza di andare oltre i limiti dell’immaginabile, di raccontare la realtà con un ottimismo beffardo, in bilico tra rassegnazione e speranza che, spesso e volentieri, sembrano coincidere in un terrificante unicum.
Tenendo presente tutto questo, non è difficile immaginare che il lavoro sporco sia stato quello effettuato dagli attori divenuti, per l’occasione, simulacri di identità tormentate, vasi stracolmi di paure con centinaia di orli ricostruiti, ogni volta un centimetro più alti. Nel ruolo di Andrea, troviamo un Claudio Botosso (Soldati – 365 all’alba, I liceali) tornato sul grande schermo in ottima forma, nei panni di un protagonista che è tutto e nulla, solo testa e niente corpo, inesorabile antagonista di se stesso.
Il locus amenus rappresentato dalla villa (che si trova sulla costa Messinese) di proprietà del suo personaggio è il posto in cui ospiterà Hikma che, intanto, ha saputo di aspettare un bambino da Riccardo, da poco separato da sua moglie Rosanna. La più giovane delle protagoniste ha il volto di Desirée Noferini (20 sigarette, Non c’è tempo per gli eroi). La splendida Fiorentina di origini Etiopi interpreta una ragazza piena di rimpianti e sogni spezzati: tentare di raddrizzarli non costa nulla, ma non è detto che ci si riesca.
Angelo Campolo (Il volto di un’altra, Distretto di polizia) ed Anita Kravos (La grande bellezza, La cura) completano il cast di un film che, senza pretese (uscirà in sole 30 sale il 4 febbraio), testimonia la “non-morte” di un modo di fare cinema che è quello più semplice da immaginare ma più difficile da concepire.