Secretary: recensione del film con Maggie Gyllenhaal
La giovane dattilografa Lee e il suo datore di lavoro, l'avvocato Grey, instaurano una curiosa relazione intima che va ben oltre le normali mansioni d'ufficio. È solo perversione o è l'inizio di una storia d'amore?
Grande scandalo al Sundance, la sera dell’11 gennaio 2002: viene proiettato in anteprima mondiale il film Secretary, opera prima del carneade Steven Shainberg. Il resto della storia lo conosciamo: il presidente di giuria John Waters si inventa addirittura un premio – il Premio Speciale “per l’originalità e il soggetto più bizzarro” – per ampliarne le possibilità di distribuzione e per renderlo il cult che in effetti è divenuto col passare del tempo; mentre la protagonista Maggie Gyllenhaal (non alla prima prova, ma comunque emergente) rastrella svariati awards per la sua luminosa interpretazione.
A vederlo con gli occhi di allora, Secretary è in effetti uno choc, una di quelle opere d’arte capaci di creare una cesura fra quello che c’era prima e ciò che verrà dopo. Mai la complessità dei rapporti d’amore era stata affrontata da questa angolazione, spezzando cioè una lancia a favore delle spinte sessuali e sentimentali meno conformiste, addirittura sdrammatizzando e “scherzando” la questione del mobbing sul posto di lavoro. Oggi verrebbe vista come una provocazione, l’ostentazione di un mondo perverso per ridiscutere Me Too, Time’s Up e i confini del sexual harassment; allora venne salutato come un invito alla liberazione, all’emancipazione dai confini precostituiti.
Secretary: un lavoro molto monotono
Sotto la coltre della prurigine (ben esemplificata ad esempio dal poster internazionale e dallo slogan, “Assuma la posizione”) ci sarebbe e di fatto c’è una normalissima love story “tradizionale” e romantica: Lee Holloway, timida ragazza 30enne che vive ancora coi suoi ma che necessita di un proprio posto nella società e di una propria identità, trova lavoro come dattilografa presso lo studio di un carismatico e umorale avvocato del quale si innamora. Seguono i piccoli-grandi giochi di seduzione, gli avvicinamenti e gli allontanamenti, la sofferenza e l’idillio, fino al definitivo coronamento del suo – anzi, del loro – incontrastabile sogno d’amore.
Il fatto è che per la sceneggiatrice post-femminista Erin Cressida Wilson, tenendo correttamente fede al racconto breve originale di Mary Gaitskill, tutto questo avviene in un contesto di autolesionismo, sadomasochismo, dialettica servo-padrone e sottomissioni di varia natura. Si scoperchia il vaso di Pandora del qualunquismo, dell’ipocrisia: cosa è lecito e cosa non è lecito accettare di questa relazione? Dove e come si pone, esattamente, l’asticella dell’etica e della morale? Il tono utilizzato – che è quello della commedia nera, che ammicca allo spettatore nei suoi svariati slanci di sense of humour – parla chiaro: l’esortazione è quella a sbarazzarci dei facili moralismi.
Secretary: “come una normale segretaria”
Perennemente sopra le righe (in un gioco che Maggie Gyllenhaal tiene per tutta la durata della pellicola in modo egregio, mentre James Spader qua e là arranca), Secretary non è destinato a scatenare alcuna tensione pornografica e voyeuristica in chi guarda (anche se si apre il solito dilemma: oggi è così, ma agli inizi dei 2000?), quanto piuttosto ci spinge a considerare come nulla meriti mai davvero di essere preso troppo sul serio, e come spesso a governare le nostre vite sia il gusto del grottesco e del paradosso.
Lungi dal voler essere un trattato spiccio di psicologia, Secretary sembra tendere verso l’anomalo teorema dell’incomunicabilità, sulle paure e sulla solitudine che trafiggono l’uomo contemporaneo. Da questo punto di vista (non siamo i primi a dirlo), la presenza continua di specchi e superfici riflettenti – così come il frequente sfondamento della quarta parete del personaggio principale – ci mette volenti o nolenti al centro dell’intreccio. Se guardiamo, dobbiamo esporci e prendere posizione, essere partecipi dell’evoluzione di un carattere che siamo portati a immaginare vittima sacrificale designata, ma che tale non è.
Secretary: cinquanta sfumature di… Grey
Ultimo ma non ultimo (ed è una conclusione che possiamo trarre solo col senno di poi), per quanto il lavoro di Shainberg possa risultare non particolarmente originale (si intravedono un po’ di Soderbergh, un po’ di Lynch, un po’ del Sam Mendes di American Beauty; e, in generale, tutte le caratteristiche del prodotto medio off-hollywoodiano), è facile scorgere l’influenza che questo campionario di bondage e sadismi “amorosi” ha avuto sul cinema. Basti pensare al fatto che il protagonista maschile di Secretary e quello della saga Cinquanta sfumature portano lo stesso cognome, Grey.
Un riferimento, quindi, meno casuale di quanto si possa pensare. Come a dire che Secretary, al netto di un certo manierismo e di un finale edificante sottotono che rischia di inficiare quanto di buono fatto fino a quel punto, ha fatto a suo modo scuola. Ridimensionando e relativizzando un tema tabù sempre attuale con le armi del brio e dell’ironia, oltre che con una ben definita e studiata eleganza estetica – la cura del dettaglio scenografico, il contrasto fra colori naturali e artificiali e di conseguenza fra genuinità e contraffazione – che gli ha permesso finora di superare la prova del tempo.