Shaun – Vita da pecora: recensione
Nel lontano gennaio 2011, la BBC ha invitato la Aardman Animation a sviluppare un film basato sull’omonima serie britannica “Shaun the Sheep (Shaun vita da pecora)” di Nick Park, destinato ad essere rilasciato tra il 2013 e 2014 e diretto dalla coppia Richard Starzak e Mark Burton. Shaun – Vita da pecora è soltanto uno tra i tanti progetti cinematografici che, nonostante la spiazzante ed essenziale semplicità, fa la differenza facendo breccia nel cuore dello spettatore e, magari, riuscendo ad allontanarlo dalla triste quotidianità strappandogli un sorriso. La pellicola esordisce presentandoci la quieta ed esasperante monotonia di Shaun e del suo gregge piuttosto sparuto, in cui l’unico e piuttosto insignificante conforto che si poteva ricavare da un’esistenza dedita al dolce far nulla e all’obbedienza del proprio ruolo di animale destinato al macello era quello di far forza comune contro una specie di “nemico comune”, se si può definire così. Il gregge di Shaun, infatti, dopo momenti di esitazione, decide di rompere questa esasperante routine dando inizio ad un piano che, ovviamente, non si realizzerà come premeditato portando pecore, fattore e cane nella grande città.
Shaun – lo stop motion che fa riflettere
Da questo momento in poi il gruppo di sventurati dovrà affrontare una serie di avventure e peripezie in un mondo ancora sconosciuto, da cui essi erano completamente avulsi non avendo la minima idea di cosa fare. Viene aperto, inoltre, il sipario ad una comicità che non si serve di parole o discorsi per fare sorridere, ma semplicemente di gesti (da notare che il film è praticamente muto) e particolari e macchinosi artifici che conquistano il cuore di un pubblico eterogeneo.
Grazie alla scrittura e la regia del duo Richard Starzak Mark Burton, questo “Shaun the Sheep Movie” (il titolo originale poi tradotto in Shaun – Vita da pecora) è un’avventura comica basata, come detto poc’anzi, sull’omonima serie ed è spin-off della serie “Wallace and Gromit“. Realizzata in stop-motion, questa produzione inglese assume dei caratteri paradossalmente tragicomici, intrattenendo sufficientemente lo spettatore con grasse risate. Si potrebbe dire che, in un certo senso, Shaun rappresenti l’archetipo di giovane intrappolato nel proprio corpo che non gli permette di agire come desidera e che, di conseguenza, per realizzare le proprie ambizioni, è costretto alla ribellione e alla rottura degli schemi. Abbastanza simile, sotto certi punti di vista, a certi teen-movie anni ’80 (I Goonies, per citarne il più noto) anche se di un genere molto diverso, il film si presenta come un prodotto tanto per bambini, quanto per adolescenti; lo spettatore, infatti, assiste a scene che sono il riflesso di una sua probabile vita quotidiana all’insegna di tematiche amorose, imbevute di un tono leggero e lievemente sarcastico.
Ciò che più colpisce dell’intera pellicola è la divergenza tra determinate scene in cui il tratto di comicità diventa sempre più intenso ed esilarante ed altre in cui particolari avvenimenti sono portati alle estreme conseguenze, come ad esempio la scena della prigione, in cui vediamo il cane con un aspetto abbastanza inquietante, tenere gli occhi spaventosamente sbarrati. Tuttavia, non mancano momenti di raffinata commistione tra una dolce tenerezza e comicità di tipo arguto che risulta di conseguenza ottima nel suo genere, riuscendo ad avere un larghissimo consenso.
Le vicende di Shaun e la sua compagnia di poveri esseri umani in balia dell’oceano di peripezie proprie del mondo in cui vivono, sono accompagnate da una riuscita colonna sonora e riflettono moltissimo, attraverso i gesti simbolici, una tematica pedagogica e quanto mai odierna, relativa all’estraniazione dei giovani: rappresenta davvero l’esplicitazione della loro volontà, fuggire dagli schemi verso una realtà altra che non li tiene imprigionati? E se poi tale realtà si rivelerà un futile strumento di apparente alienazione? Domande a cui è arduo rispondere, ma a cui il film è riuscito a dare una convincente e sentita interpretazione.