Shooting Silvio: recensione dell’opera prima di Berardo Carboni
Shooting Silvio, visto oggi, è un amaro dito puntato contro ciò che non siamo stati e non abbiamo fatto.
Sicuramente fa un effetto straniante, curioso ed inquietante guardare questo Shooting Silvio, uscito a dicembre e risalente in realtà al 2006, arrivato in sala brevemente l’anno dopo, soffocato dalla concorrenza di quel Caimano di Moretti, che in realtà anticipò per tematiche, taglio e una costruzione diegetica originale, simbolica e grottesca.
Accolto molto male, censurato in modo indegno ed eccessivo, a vederlo oggi non può che strappare un amaro sorriso.
Berardo Carboni, costruisce una sorta di favola onirica, un b-movie dichiarato, libero e sfrenato, con un cast trasversale e sorprendente, che comprende Alessandro Haber, Marco Travaglio, Federico Rosati, Antonino Iuorio, Antonella Bavaro e Sofia Vigilar.
Protagonista è il giovane Giovanni detto Kurtz (Rosati), ragazzo agitato e in preda ad una sorta di delirio messianico e patriottico, deciso a fermare lui, quello che era il nemico di una fetta d’Italia e l’idolo di un’altra: Silvio Berlusconi.
Giovane ricco e abbastanza annoiato, Kurtz prima parte con l’idea di creare un libro su Il Cavaliere, poi a poco a poco decide che l’unica cosa da fare è eliminare Berlusconi, toglierlo di mezzo. L’impresa, lo porterà a scoprire il sottobosco del berlusconismo, l’anima sognatrice ed arraffona di quell’Italia, che capirà essere anche la sua, prima del grottesco finale.
Shooting Silvio è un’odissea grottesca ma illuminante
Shooting Silvio è senza ombra di dubbio un film a dir poco particolare. Tramite un bianco e nero davvero efficace ed espressivo, Carboni dipana una sorta di grottesca caricatura del cinema impegnato d’autore dell’Italia che fu, si collega con la dimensione del sogno e della realtà che si uniscono, più che agli echi felliniani, di un Sorrentino di cui riprende l’immagine di viveur in cerca di redenzione.
Protagonista è un giovane che (come tanti in questi ultimi 30 anni) non accettava l’ingerenza, la predominanza del modello berlusconiano nella nostra vita, quell’invadere la realtà prima nella dimensione catodica, poi in quella morale e politica.
La televisione ci riporta ai momenti topici del gran Visir di Arcore, alle sue promesse stantie e faraoniche, ai suoi lacché televisivi, agli spot, alle frasi ad effetto, al consenso popolare che lo rese capace (come ricorda Travaglio) di vincere anche quando perdeva.
Montanelli, Mike Bongiorno, Enzo Biagi, Fede…c’è tutta quella fetta d’Italia che è scomparsa, che a vederla oggi pare appartenere ad un regno lontano, ad un’altra epoca. Invece Shooting Silvio ci ricorda che era solo ieri, che in fin dei conti non è cambiato niente e non perché Silvio non sia più così (apparentemente) centrale nella nostra vita politica o culturale.
Berlusconi ha cambiato anche l’anima di chi lo ha rifiutato
Kurtz, mentre avanza dentro quel cuore di tenebra, quel mondo di pajette e carne di donna, si scopre incredibilmente simile, ad un certo punto quasi pare che in fin dei conti egli sia più berlusconiano che anti-berlusconiano. Diventa un giovane rampante, seduttore, individualista sprezzante, un arrivista che pensa di essere sognatore, mentre pezzi Indie e new acoustic si alternano in sottofondo, accompagnando la sua trasformazione in deciso sicario del novello Marlon Brando.
La palude scompare, essa è catodica, ma è anche fisica, nei corpi delle donne che lui (come Silvio) usa per propria vanità e piacimento, mentre si agita in una sorta di delirio narcisistico dove le manie di protagonismo, la volontà di essere un vincente, lo avvicinano sempre più a comprende il suo nemico.
Berlusconi in Shooting Silvio è un’ombra, una sorta di divinità agognata e inseguita dentro una giungla , né più né meno di quanto lo fu quel Kurtz, quel Marlon Brando, diventato leggenda.
Carboni supera lo stesso limite tra realistico e non, tra narrazione e mondo reale, con i suoi personaggi volutamente prismatici, le istantanee di un’era non poi così dissimile dalla nostra, semmai antecedente, lo scheletro su cui abbiamo costruito il racconto totalmente individualista.
Un’opera prima imperfetta ma piena di energia
Ma chi è Berlusconi? Cosa è stato il berlusconismo? Davvero sarebbe bastato un colpo di fucile? Difficile rispondere, anche se l’impressione, è che Shooting Silvio ci parli di quanto ormai il contagio avesse raggiunto livelli assolutamente incredibili, quando il culto della personalità, l’agognare una realtà il più aderente possibile alla narrazione emotiva e pacchiana delle reti Mediaset, del Cavaliere eternamente giovane ormai si erano impossessati di tutti noi.
Kurtz che si dipinge la faccia da patriota, la sede di Forza Italia, il sottobosco umano che onora Arcore e il suo Signore sentendosi così libero di fare ciò che vuole senza ripensamenti…in fondo anche loro volevano sognare, peccato che credessero sarebbe diventato realtà.
Opera sicuramente fragile nella recitazione, audace nella costruzione ed ambizione, volutamente provocatoria ma senza abbracciare l’ironia, Shooting Silvio è senza ombra di dubbio un’operazione che a suo tempo meritava di essere lasciata più libera. Perché innocua? Anche. Ma soprattutto perché sperimentale, beffarda, eccessiva, insomma ad immagine e somiglianza della sua “vittima”, di quella maschera. I riferimenti a Coppola si sprecano? Si. E non sempre paiono azzeccati, ma se tutte le opere prime fossero state così, allora il nostro cinema sarebbe diverso.
A ben pensarci, è un assioma che possiamo applicare ad un’immensa varietà di situazioni italiche, quel “se” ci insegue da decenni, siamo un paese del “se”. E in fin dei conti, Shooting Silvio, visto oggi, è un amaro dito puntato contro ciò che non siamo stati e non abbiamo fatto.