Shoshana: recensione del film di Michael Winterbottom

Michael Winterbottom dirige un intenso thriller politico basato su fatti realmente accaduti. Shoshana, con Douglas Booth, Harry Melling e Irina Starshenbaum, arriva nelle sale italiane il 27 giugno 2024

Ispirato a fatti realmente accaduti, opportunamente ritoccati (ma non traditi) – alcuni romantici, altri tragici, tutti ugualmente importanti – Shoshana, regia di Michael Winterbottom e nelle sale italiane il 27 giugno 2024 per Vision Distribution, è un film dalla doppia personalità. Il suo presente è un passato piuttosto lontano, si parla degli anni Trenta e Quaranta del Novecento in Palestina, che però allude a tensioni e problemi decisamente contemporanei. Lezione di Storia e politica, ma declinata in chiave sentimentale. Sceneggiatura di Laurence Coriat, Paul Viragh, Michael Winterbottom. Un bel cast, con Douglas Booth, Irina Starshenbaum, Harry Melling, Aury Alby. L’etichetta più appropriata è di thriller politico a sfondo storico: popoli in lotta, violenza, libertà, sogni di indipendenza, ma non solo. La particolarità del film è che racchiude la politicità del suo sguardo nel racconto dell’intimità – anche e soprattutto sentimentale – dei protagonisti. Sarebbero un inglese e un’israeliana.

Shoshana: una giovane donna stretta tra due legami tremendamente importanti

Shoshana cinematographe.it recensione

Michael Winterbottom, che al film ha pensato per tanti anni prima di riuscire a realizzarlo, fa correre Shoshana lungo il crinale di una doppia utopia: con la maiuscola e senza. L’Utopia è il popolo ebraico e il sogno di trovare riparo in Palestina, nella terra dei padri, dopo un millennio e più di diaspora, persecuzioni, ostilità di chiara matrice razzista. È dalla fine dell’800 che ebrei da ogni parte del mondo, un poco alla volta, tornano in quella che considerano la loro vera e unica casa, per costruire un nuovo stato e una nuova società, fondati su principi e valori rivoluzionari. Un po’ come la neonata cittadina di Tel Aviv – il film è ambientato tra gli anni ’30 e ’40 del Novecento, quando la città è ancora l’embrione di quella attuale – il simbolo, la cartolina beneaugurante, del futuro di progresso e emancipazione che Israele vuole per sé. Tel Aviv è giovane, razionale, moderna; sembra fatta apposta per nascondere il lato oscuro dell’Utopia. Perché in Palestina, da secoli, vive anche un altro popolo, di religione e cultura musulmana, che non gradisce di vedersi spazzato via dai nuovi (vecchi) padroni ebrei. L’incomprensione tra le comunità sfocia rapidamente in violenza. Di questo Shoshana si occupa trasversalmente; il focus politico è sul rapporto tra i padroni inglesi – la Palestina non è uno stato indipendente, è un “mandato” britannico che si esaurirà solo nel 1948 – e i recalcitranti israeliani assetati di indipendenza.

Al centro della storia c’è un amore. La relazione – sono entrambi esistiti, è tutto basato su fatti realmente accaduti anche se parecchio drammatizzati – appassionata e piena di ostacoli tra un funzionario inglese, Thomas Wilkin (Douglas Booth), e una donna israeliana, Shoshana Borochov (Irina Starshenbaum). È lei l’utopia con la minuscola, ma senza intenti denigratori: progressista, femminista, sessualmente emancipata, figlia di un ebreo ucraino idealista morto all’epoca della Rivoluzione. Shoshana vuole costruire Israele pacificamente e sono in pochi da quelle parti a pensarla così. Il film enumera, con scrupolo e rigore storico, il grande numero di gruppi, formazioni paramilitari, organizzazioni segrete, che lottano all’ultimo sangue per l’indipendenza del paese. Il più agguerrito è il poeta e nazionalista Avraham Stern (Aury Alby), convinto che solo nella violenza il suo popolo sarà libero. Ha messo nel mirino tanto Thomas quanto il collega Geoffrey Morton (Harry Melling). A differenza dell’altro, più empatico e aperto – Thomas impara l’ebraico, si mescola con i locali, si sforza di capire – Geoffrey è interessato solo a mantenere l’ordine.

Shoshana filtra la Storia negli occhi della giovane protagonista, innamorata di un “oppressore” inglese e per questo malvista dalla comunità, sostenitrice di un approccio pacifico e razionale al problema dell’indipendenza ma condizionata dall’estremismo di Stern e i suoi; non rinuncia, se necessario, alla possibilità di prendere le armi. Michael Winterbottom sistema il suo film al punto d’intersezione tra verità storica e conseguente deformazione, spettacolare e cinematografica. Allo scopo costruisce un thriller politico teso e di pregevole fattura – complice l’elegante fotografia di Giles Nuttgens e i bei costumi di Anthony Unwin – che fissa la Storia in movimento da una doppia angolazione. Chiarendo il contesto e spiegando come il contesto arrivi a definire la vita, l’amore e tutto il resto, di una giovane donna.

La Storia spettacolarizzata e drammatizzata, a fin di bene

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Non è solo l’urgenza di contestualizzare che spinge Michael Winterbottom a “requisire” i primi minuti di Shoshana, letteralmente inondandoli di materiali di repertorio. Affidando, alla voce fuori campo di Irina Starshenbaum, il compito di dipanare, a beneficio dello spettatore e del suo bisogno di chiarezza, decenni di vita palestinese per scoprire come e perché, un passato pieno di incomprensioni, abbia condotto a un così sanguinoso e brutale presente. La partita del film è la drammatizzazione rispettosa ma spettacolare di vicende realmente accadute; il voice over del personaggio (dell’attrice) impresso sulle immagini è una frizione, benefica, tra realtà e artificio. Da qui parte la scintilla che accende il film, smascherando le mezze verità delle versioni ufficiali e della propaganda – gli imbolsiti cinegiornali scelti per l’occasione – e parlando anche di sentimenti.

Shoshana è la metà israeliana e inglese della storia, con poco spazio per gli altri. I palestinesi, se e quando ci sono, vanno trovati ai margini del quadro. Ma è proprio questo il punto: oltre la frustrazione per l’evidente (ma intenzionale, ragionata) esclusione, Shoshana racconta la genesi di un odio che si nutre di indifferenza, sottovalutazione e ostilità nei confronti dell’altro, scarsa considerazione per la vita umana. Ai nemici di ieri (gli inglesi), si sostituiscono quelli di oggi (i palestinesi); cambiano i volti, non le dinamiche e le tensioni estremiste. Michael Winterbottom ha buon gioco nel fare della Storia spettacolo, lavorando sulla suspense, i ritmi e la tensione del buon thriller politico. Esplora il senso di minaccia che permea la vita dei protagonisti: possono andarsene, in qualsiasi momento, perché la vita non vale più di così.

Il senso ultimo del film, però, è un altro, l’indagine di un’intimità messa alla prova dal conflitto lacerante tra la fedeltà ai sentimenti e le tensioni che arrivano da fuori, dalla politica, dall’ideologia, dall’esasperazione dei toni e dall’estremismo. Irina Starshenbaum racconta con intensità e in maniera dannatamente credibile l’interiorità scissa della protagonista, che ama Israele e il suo sogno di libertà ma deve fare i conti (trovare la quadra) con l’amore per l’uomo inglese che è l’incarnazione dell’ostacolo alla realizzazione delle sue aspirazioni politiche. Crede nella pace, ma con un fucile in mano. È libera, in una società che fatica ad accogliere il bisogno di indipendenza di una donna che sa cosa vuole. Accanto a lei, l’empatia e i dubbi di Douglas Booth e l’elettricità inquietante, molto umana, di Harry Melling. A metà strada tra fatti realmente accaduti e drammatizzazione, Shoshana è un incastro felicemente complicato di politica e sentimenti.

Shoshana: valutazione e conclusione

Michael Winterbottom sa fare spettacolo della Storia, senza tradirla. Il versante thriller politico, la tensione e la suspense, l’emotività e le scelte (sentimentali) dei protagonisti: da qui passa la forza intelligente di Shoshana, sostenuta dalla qualità e dall’eleganza non polverosa della messa in scena. Il film corre molto, perché la materia è complessa e non è sempre facile destreggiarsi nel marasma di sigle, riferimenti e fazioni che lacerano il cuore della Palestina, anche in questi anni ’30 e ’40 del Novecento che sembrano tanto lontani ma parlano in modo sconcertante al nostro presente. Shoshana funziona bene quando si tratta di spettacolarizzare la Storia, meno quando prova a farne la cronaca. Il suo cuore è nel conflitto tra sentimenti e politica, nella pressione esercitata dalle ideologie e dagli estremismi sulla vita degli individui. La prova convincente di Irina Starshenbaum lega bene il dentro e il fuori di Shoshana. Il primo e il migliore motivo per dare al film la giusta considerazione.

Regia - 3
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 3
Recitazione - 3
Sonoro - 3
Emozione - 3

3