Sì, Chef! – La brigade: recensione del film di Louis-Julien Petit
Cathy sogna di aprire un ristorante e invece si trova a cucinare in un centro di accoglienza per giovani migranti. Fuggire o abbracciare una meravigliosa opportunità? Sì, Chef! - La brigade, con Audrey Lamy e François Cluzet, è in sala dal 7 dicembre 2022.
Non ci stancheremo mai di mangiare, ovvio, ma neanche di guardare film pieni di gente che cucina, mangia o fa entrambe le cose contemporaneamente. Considerazioni che si possono estendere agevolmente anche a Sì, Chef! – La brigade, ma va premesso che ridurre il film a un discorso intorno alle profondità insondabili dell’arte della buona cucina appare riduttivo e anche un po’ ingiusto. Questa storia è architettata per costringere lo spettatore ad allargare lo sguardo. Regia di Louis-Julien Petit, con Audrey Lamy e François Cluzet e tanti altri, in Italia arriva al cinema il 7 dicembre 2022 per I Wonder Pictures, preceduto da una serie di anteprime il 5 e il 6.
Si parla di cucina, certo. Ma anche di solidarietà, accoglienza, fratellanza. Buoni sentimenti e un inevitabile afflato politico, il rischio di perder equilibrio sul terreno (doppiamente) sdrucciolevole del sentimentalismo e della politicizzazione ruffiana di storia e vissuto dei personaggi. Sì, Chef! – La brigade è consapevole dei rischi che un approccio del genere si trascina dietro come una palla al piede. Nel complesso, regge.
Sì, Chef! – La brigade: i sogni di Cathy e una cucina diversa da tutte le altre
Cathy (Audrey Lamy) ha un sogno, ma anche quarant’anni. Due fattori che, a combinarli insieme, viene fuori un totale tutto sommato prevedibile ma anche empatico. Cathy, per sua e nostra fortuna, ha un brutto carattere. Le basterà per dare una sterzata a una vita insoddisfacente e finire nel posto giusto al momento giusto. Anche se così non sembra, soprattutto all’inizio. Facciamo conoscenza con la protagonista nella cucina di un ristorante stellato, nulla che somigli a un lieto fine all’orizzonte. Sous-chef, per la precisione, che nel gergo tecnico, l’avrete intuito, significa seconda in comando. Vice capo, quarant’anni. Cathy non ha abbastanza soldi per aprire il suo ristorante quando sceglie di ribellarsi allo (alla) chef di livello top che ne mortifica sistematicamente la creatività e non la sa ascoltare, ma quando è troppo è troppo. Comunque, realizza-i-tuoi-sogni-prima-che-sia-troppo-tardi è un motivetto orecchiabile. Meglio darsi da fare.
D’altronde, trova subito lavoro. Peccato che non abbia capito nulla di quello che dovrà fare e, soprattutto, perché. Arriva al colloquio accompagnata dalla sua migliore e forse unica amica Fatou (Fatou Kaba). Anche Fatou ha un sogno, vuole diventare una stella del cinema, tutti hanno un sogno in Sì, Chef! – La brigade. Ma i sogni di Cathy poggiano su un fondo più ragionevole di quelli delle persone con cui dividerà al sua vita da qui in avanti. E che gliela cambieranno, questa vita da quarantenne inespressa, nel migliore dei modi. Cathy incontra il signor Lorenzo Cardi (François Cluzet) e scopre di doversi occupare della mensa di un centro d’accoglienza per migranti. Tutti giovani maschi, tra i dodici-tredici e la ventina. In più il posto è sperduto, non ci sono attrezzature e manca il personale.
Cathy può contare sull’appoggio gentile di Sabine (Chantal Neuwirth) e sulla leadership pacata del signor Cardi. Il primo approccio è catastrofico. Il muso lungo della protagonista, l’insofferenza per il centro e i suoi occupanti, l’indisponibilità a rimboccarsi le maniche sono un po’ il riflesso dell’indiffereza e dell’altezzosità delle moderne società occidentali nei confronti delle istanze e dei problemi degli “altri”. Cathy però è anche il volto edificante di questo mostro bifronte. In parte per una certa affinità di background, in parte perché è impossibile fare diversamente, piano piano cambia atteggiamento. Conquista tutto e tutti con la sapienza e la ricchezza del suo stare in cucina e certo si fa conquistare da tutto e da tutti. La brigata di cucina che Cathy riceve in dote dal destino è diversa da come se l’era immaginata; le ricompense, infinitamente superiori. I ragazzi hanno bisogno di accumulare titoli (professionali e di studio) per restare nel paese legalmente. Lei non ha mai smesso di pensare al suo ristorante e ha esperienza da vendere. Due più due fa ancora quattro, giusto?
Tra fiaba e vita vera, un film politico e molto personale che fa ridere ma non si dimentica della realtà
Per un film come Sì, Chef! – La brigade la questione del dosaggio degli ingredienti è anche più urgente e decisiva che altrove. La ricetta, prevedibile analogia a suo modo cucita su misura, parla di fiaba venata di realismo e volontà di denuncia dove l’ottimismo della premessa, per non perdere smalto, deve necessariamente scontrarsi con l’asciuttezza di un brusco ritorno alla realtà dei fatti. Quello che i fatti ci raccontano è che l’armonia tra immigrati e società d’accoglienza è un’utopia infranta contro la barriera delle strumentalizzazioni politiche, dell’indifferenza generale e, spesso, dell’inesperienza dei pochi volenterosi. Qui, il compito di Louis-Julien Petit e delle sceneggiatrici Liza Benguigui e Sophie Bensadoun è di prendere all’amo una situazione di strettissima attualità, rivestirla di una patina fiabesca e surreale, guarnirla di verità umana e politica senza dimenticarsi dell’umorismo. Soprattutto, niente retorica.
Non a caso, a dare volto al serafico e appassionato signor Cardi, il padre simbolico dei giovani migranti alla ricerca di un angolino di stabilità nelle società d’approdo, è proprio quel François Cluzet che con Quasi amici – Intouchables ha sbancato i botteghini di mezzo mondo offrendo un saggio eloquente delle possibilità di un cinema a metà strada tra dolore, risata e commozione, sorta di ruffianeria controllata e con le migliori intenzioni. Qui il mood è più arrabbiato e la politicizzazione della vicenda più evidente, ma l’idea di fondo, coniugare realtà e modi di vedere all’apparenza in conflitto per tirar fuori una storia che sia, allo stesso tempo, perfettamente plausibile ma anche dolorosamente irreale, somiglia, eccome se somiglia.
La chiave attraverso cui Sì, Chef! – La brigade armonizza i suoi piani di lettura, sentimentale e politico, reale e fiabesco, arrabbiato e divertito, è l’intepretazione della brava Audrey Lamy. Cathy non è l’emblema del privilegio e dell’indifferenza, prima, o un’idealizzata madre coraggio che lotta per l’avvenire dei suoi figli simbolici, dopo. Cathy è una donna con un sogno. All’inizio del film, il suo è un sogno egoista e autoreferenziale, il miraggio del ristorante stellato e della rivincita generalizzata. Con il tempo il suo modo di fare si fa più aperto, solidale. Per arrivare a dama occorrono disciplina e coraggio, serve partecipazione, la vita di brigata attorno ai fornelli. Tuttogira intorno al cibo. Il cibo come creatività, come piacere, colore e convivialità, un’occasione di scambio tra esperienze di vita e culture differenti. Sì, Chef! – La brigade è un film consapevole della natura ambivalente della sua offerta, insieme sincera e giocosamente artefatta. Ha un buon sapore, perché conosce limiti e possibilità della ricetta e non cerca la strada più facile, la strada retorica.