Venezia 79 – Siccità: recensione del film di Paolo Virzì
Paolo Virzì con la sua parabola ecologista e apocalittica immagina una Roma in piena crisi idrica e alle prese con la prima fase di un’ondata pandemica. Troppa carne al fuoco per un instant movie corale schiacciato dal peso dell’inespresso. Dal 29 settembre 2022 al cinema e fuori concorso a Venezia79.
Le disgrazie, si sa, non vengono mai sole e quando le cose non girano per il verso giusto e si va di male in peggio, l’espressione più calzante che si è soliti utilizzare è “piove sul bagnato”. Peccato che nella Roma apocalittica immaginata da Francesca Archibugi, Paolo Giordano, Francesco Piccolo e Paolo Virzì per il film diretto da quest’ultimo dal titolo Siccità, nelle sale dal 29 settembre 2022 con Vision Distribution dopo la proiezione fuori concorso alla 79esima edizione della Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica di Venezia, di pioggia non se ne vede da tre anni. Ed è in una Capitale allo sfascio in piena emergenza idrica e nel caos più totale, dove la mancanza d’acqua e i numerosi divieti hanno finito con lo stravolgere regole e abitudini, che si muovono come mine vaganti i tanti personaggi che affollano il racconto e la timeline dell’ultima fatica dietro la macchina da presa del cineasta toscano. Un coro, questo, multiforme e variegato, nel quale figurano giovani e vecchi, emarginati, uomini e donne di successo, vittime e approfittatori, le cui esistenze sono legate in un unico disegno, mentre ognuno cerca la propria redenzione.
Quella che fa da cornice a Siccità è una Roma che assomiglia a un vaso di Pandora colmo di vizi e mali contemporanei e pronto a implodere.
Virzì cerca con il suo nuovo film di entrare in sintonia con il momento storico e con tutto ciò che stiamo vivendo, portando sul grande schermo una sorta di instant movie nel quale raccoglie e affronta temi e condizioni attuali. Il tutto immaginando una Roma di un futuro non troppo lontano, prosciugata completamente da tutte le energie vitali come il Tevere che la taglia in due, invasa dalle blatte, minacciata da un virus letale e soffocata da un sole che batte spietato sulle teste dei cittadini. Una metropoli nel caos più totale, dove la gente fa la fila per avere delle razioni d’acqua per sopravvivere e che è costretta a tirare fuori il peggio di sé per farle proprie. Quella che fa da cornice alla pellicola è una cloaca nauseabonda, un ventre marcio, ma soprattutto un vaso di Pandora colmo di vizi e mali contemporanei pronto a implodere.
Siccità vuole essere una palla di vetro che riflette quel domani devastato e privo di speranza verso il quale ci stiamo dirigendo a ritmo sostenuto
Siccità vuole dunque essere una palla di vetro che ci mostra quel domani devastato e privo di speranza verso il quale ci stiamo dirigendo a ritmo sostenuto. Virzì, da sempre attento alle dinamiche sociali che ha mostrato attraverso gli occhi dei personaggi che hanno popolato i suoi film, porta sullo schermo un disaster-movie che a una lettura ai raggi x vuole mettere a nudo un’umanità spaventata, affannata, afflitta dall’aridità delle relazioni, malata di vanità, mitomania e rabbia non più repressa. Attraverso la galleria di personaggi che si affacciano di volta in volta nel quadro, passandosi reciprocamente il testimone, il cineasta livornese vuole impersonificare tutto questo. Ciascuno di loro, innocente o colpevole, vittima o carnefice che sia, è lo specchio che li riflette e li rappresenta. L’habitat urbano e casalingo che li accoglie e che fa da cornice a questa vicenda corale è la tela sulla quale l’autore disegna con pennellate di giallo acceso e di rosso ardente un racconto a mosaico di tasselli singoli che man mano scopriamo essere legati l’uno all’altro in un intreccio più grande. Un intreccio che si rivelerà purtroppo una ragnatela ingarbugliata di tanti buoni propositi rimasti incastrati a causa dell’incapacità di una scrittura di tenerli insieme e farli coesistere in maniera equilibrata. Esattamente il contrario di quanto fatto con successo da sceneggiature ugualmente stratificate e sorrette dalla medesima tecnica come quelle firmate da Guillermo Arriaga per il lavoro al fianco di Alejandro González Iñárritu o dal Paul Haggis di Crash.
A dispetto del titolo nel film c’è troppa carne al fuoco che le pagine dello script prima e lo schermo poi non riescono a contenere e a fare coesistere
A dispetto del titolo, il film di Virzì è tutt’altro che arido e a secco di materia prima dalla quale la scrittura prima e la sua trasposizione poi avrebbero potuto abbeverarsi per fare tanto e bene. Ma invece l’abbondanza di temi sollevati e trattati, di riflessioni a voce alta, di profezie che hanno il chiaro intento ammonitore, più che una ricchezza e un serbatoio infinito dal quale attingere si rivelano un’arma a doppio taglio che satura lo script prima e la sua messa in quadro poi. La penna degli sceneggiatori chiama in causa tutto e il contrario di tutto, mettendo tantissima e troppa carne al fuoco che le pagine e lo schermo non riusciranno a contenere e a fare coesistere. Si parte da una parabola ecologista e si finisce diritti alla prima fase di una possibile ondata pandemica. Nel mezzo c’è spazio per un pieno di altre argomentazioni che avrebbero meritato ben altro che un sorvolo pindarico.
A pagare il prezzo più alto sono i personaggi, mandati alla deriva come naufraghi su un isola deserta
Ci si trova così al cospetto di frammenti più riusciti ed leggermente più approfonditi di altri che appaiono abbandonati a se stessi. Sicuramente un lavoro in sottrazione e un focus più centrato come avvenuto ne Il capitale umano o in Tutta la vita davanti avrebbero garantito al risultato finale una maggiore tenuta, solidità strutturale e scorrevolezza narrativa e drammaturgica. Sta dunque alla radice il tallone d’Achille di un’operazione nata sotto la luce di buoni propositi, ma che ha finito con l’inabissarsi sotto la superficie della sufficienza per colpa del peso dell’inespresso e della superficialità nello sviluppo della trama e dei suoi personaggi. Sono proprio i tantissimi interpellati e gettati nel calderone a pagare il prezzo più alto, proprio loro per le quali Virzì ha sempre nutrito grande rispetto e un amore viscerale, che qui salvo eccezioni (il tassista e la dottoressa interpretati rispettivamente da Valerio Mastandrea e Claudia Pandolfi) vengono mandati alla deriva come naufraghi su un isola deserta.