Biografilm 2020 – Sing me a song: recensione del film di Thomas Balmès

Dopo Happiness, Thomas Balmès torna in Bhutan per seguire l'impatto dell'avvento di Internet sulle vite dei monaci buddisti

Se nel 2013 Thomas Balmès ha sorpreso il pubblico e la critica con il suo Happiness, con Sing me a song il regista parigino torna a raccontare il Bhutan contemporaneo. Questa ultima fatica – presentata al Biografilm Festival 2020 – si riaggancia direttamente al primo film, e va ad esplorare cosa succede al protagonista dieci anni dopo il suo primo incontro con Balmès. In Happiness si osservava come una delle regioni più remote del mondo si stava rapidamente adattando allo sviluppo tecnologico degli ultimi anni. A raccontare questo cambiamento, un bambino di 8 anni chiuso in un monastero per coltivare gli studi e lo spirito. Peyangki – questo il nome del monaco-bambino – aveva in programma di diventare Lama, uno dei titoli onorifici massimi per il buddismo tibetano, e di dedicarsi interamente alla realizzazione di questo obiettivo. Ma che succede quando la tecnologia e – soprattutto – Internet diventano parte della sua vita?

Sing me a song: il racconto straordinario di due vite intrecciate

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Per rispondere a questa domanda, Balmès torna in Bhutan e ritrova Peyangki diciottenne. Negli anni, il ragazzo è decisamente cambiato nell’atteggiamento e nel rendimento: il fervore spirituale è stato sostituito da una curiosità verso il mondo esterno e alle preghiere ora si alternano sessioni di gioco e videochat sul suo smartphone. Insieme a lui, anche gli altri giovani monaci sembrano completamente irretiti dall’attrattiva tecnologica e – al pari di tutti gli altri ragazzini in qualunque parte del mondo – passano la maggior parte del loro tempo libero connessi.

Questo su Peyangki sembra influire negativamente, dandogli un’aria indolente e svogliata. Complice anche l’irrequietezza data dal passaggio all’età adulta, il ragazzo inizia a chiedersi se, poi, quello del monastero sia realmente l’ambiente più adatto a lui. Nonostante i rimproveri e le richieste dei maestri e della madre, infatti, sembra non riuscire a staccarsi dal suo telefono e il motivo presto è chiaro: ha iniziato una relazione virtuale con Ugyen, una ragazza di Thimphu, la capitale del Paese. Ugyen si mostra in videochat come una bellissima cantante che si guadagna da vivere con la sua arte, ma tralascia ben due segreti: ha una bambina ed è in procinto di trasferirsi all’estero.

Osservare il mondo da uno spiraglio

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Con Sing me a song Balmès compie un’operazione storiografica raffinatissima, andando a fotografare un momento cruciale della contemporaneità – l’avvento di Internet – in un contesto particolare ed estremo. Per il pubblico che ormai è abituato a vivere la connessione come un elemento della propria quotidianità, può essere un passaggio scontato, ma basta vedere come questa rivoluzione sia entrata in ogni spiraglio, persino nei templi della spiritualità buddista, per capirne l’entità sconfinata. Anzi, tanto è più importante questo racconto, tanto più che lo si è vissuto – nella maggior parte dei casi – in maniera quasi inconsapevole.

Le relazioni, le aspirazioni, persino la soglia dell’attenzione e la capacità di recepire le informazioni in senso classico sono state messe in discussione da Internet. Nella storia di Peyangki e Ugyen si osserva un concentrato di fenomeni legati all’era del web, dalla costruzione di un’identità edulcorata che vive una vita a parte sui social al ghosting, quando si vuole comunicare la fine di una relazione col silenzio in chat. Inoltre ogni altro aspetto delle vite dei due protagonisti è intriso di immagini, informazioni e attività che vivono sul web. Dallo shopping online, alle news in tempo reale di politica estera, fino al gaming: non c’è più quasi nessun aspetto che non possa essere soddisfatto da Internet.

Sing me a song, un capolavoro tecnico

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Certamente aiutato dall’immensa bellezza dei luoghi che è andato a raccontare, Balmès realizza un documentario tecnicamente incantevole. Innanzitutto, salvo che nell’introduzione, riesce ad evitare le teste parlanti, dando un taglio decisamente più cinematografico al racconto. Riesce, inoltre, a rendere con l’efficacia e l’organicità di un film di finzione una storia reale, con personaggi reali: impresa che, quando riesce, va sempre sottolineata come gran risultato.

Nei colori e nella costruzione delle inquadrature, poi, Balmès costruisce dei quadri di grande bellezza. In effetti, la fotografia è uno degli elementi più notevoli di tutto il film, talmente studiata e sempre interessante da confermare – qualora ce ne fosse bisogno – l’enorme esperienza del regista e la solida produzione alle sue spalle. Sing me a song mette in scena situazioni canoniche, in un contesto (per noi) eccezionale, con un apparato tecnico ineccepibile. Appassionante in tutti i suoi 100 minuti di durata, nonostante i lunghi silenzi, Sing me a song è un documentario assolutamente da non perdere.

Regia - 4
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 5
Sonoro - 3
Emozione - 3

3.8