Smile 2: recensione del film horror di Parker Finn

Parker Finn ricorre ad un citazionismo colto e funzionale, per un secondo capitolo di rara eleganza, intensità e inquietudine. Suggestioni di Polanski, Cronenberg e Fargeat. In sala dal 17 ottobre

Raramente accade, specie nel nuovo cinema horror popolare, che un franchise trovi il modo di rigenerarsi di capitolo in capitolo, migliorandosi sempre più. Siamo stati infatti testimoni di inavvertiti fallimenti, basti pensare a The Conjuring Saga e spin-off annessi – avviata meravigliosamente e poi andata perduta – e così a moltissimi altri titoli targati Blumhouse Productions e non solo. Eppure tra insuccessi, titoli annunciati e in definitiva mai realizzati e reboot dagli esiti catastrofici, brillano improvvisamente delle vere e proprie epifanie, nient’affatto contaminate dalla disperata somiglianza circostante, è il caso di Parker Finn. Autore statunitense, è il caso di dirlo, incredibilmente giovane, Finn, comincia come molti altri colleghi dirigendo dei corti; Laura Hasn’t Sleep vale la pena d’essere ricordato; approdando poi al grande titolo commerciale, Smile, che non solo entusiasma il pubblico internazionale, ma anche la critica.

Nasce così un franchise dagli imprevedibili esiti, immediatamente virale; la campagna marketing è una delle più interessanti e sagaci degli ultimi anni; e la speranza è quella che Parker Finn non si perda, una volta inghiottito dalle spietate logiche delle majors hollywoodiane. Non è successo. Smile 2 si spinge ancora oltre e le sue radici affondano in un ricco e funzionale citazionismo cinematografico, raccontandoci qualcosa di feroce e interessante su questo nuovo mondo, sempre più in balia dei social, della fama, della crudeltà artistica e inevitabilmente di un autolesionismo lacerante e diffuso, derivato da ciascuna delle precedenti cause.

L’epidemia passa per il successo e l’oscurità dello spettacolo. Finn ritrova Polanski, Cronenberg e Fargeat

Smile 2: recensione del film di Parker Finn

Nella New York spesso notturna e trasfigurata dalla dimensione demoniaca e disperata dell’incubo – ad occhi aperti e non – e dell’allucinazione visiva, causata da quell’epidemia silenziosa, ma incredibilmente concreta, che abbiamo conosciuto nell’ottimo capitolo precedente, si muove sgraziatamente Skye Riley, una popstar di grande fama, logorata da un passato di dipendenze e morte. Interpretata da Naomi Scott, che non soltanto è una cantautrice di successo, ma anche attrice di notevole intensità, Riley vaga, spesso dolorante, altrimenti perseguitata da quei fantasmi, che fin troppo a lungo ha cercato di mettere a tacere, ricorrendo alle droghe e a scelte di pessimo gusto, delle quali vorrebbe dimenticare ogni conseguenza e circostanza, pur non riuscendoci affatto. Attorno a lei la famiglia, che le è devota, oltre la quale vi è il nulla. Ha perso l’amore, poiché la morte se lo è portato via e così l’amicizia, divorata dalle logiche del successo, della vanità e dalle inavvertite ma evidenti mutazioni della stessa.

Ecco perché quando il male giunge, divorandola dall’interno – fino alla catarsi, dunque all’esposizione ed esplicitazione dello stesso, di fronte al grande pubblico -, nessuno sembra accorgersene. Poiché Riley era già stata divorata dal male, più e più volte. Un male che aveva nomi differenti, ma effetti tragicamente simili. Le verrà chiesto “ti fai ancora?”, non per mancata comprensione, piuttosto per un eccesso della stessa, segue infatti la rivelazione “se è così, non lo diremo a nessuno, proseguirai il tour”, la fama mette a tacere il male, qual è dunque la peggior crudeltà? Quella dell’epidemia demoniaca, o di chi conduce incessantemente al logorio e al crollo?

È curioso dunque ritrovare in questo accessibile modello di grande cinema horror popolare, influenze autoriali che passando per il sinistro polanskiano di Rosemary’s Baby, raggiungono ben presto l’ossessiva, morbosa e feroce riflessione di Maps to the stars, il film in cui David Cronenberg osserva e racconta per la prima volta l’oltremondo dello spettacolo, l’oscuro che fa capolino dietro la maschera e l’orrore, quello vero, che genera la fama e che appartiene appunto alle star. Non è tutto, poiché sorprendentemente, riappare tra le feroci sequenze sull’autolesionismo del palcoscenico, della bellezza e femminilità esasperata, la Coralie Fargeat del recente ed entusiasmante The Substance, ancor più feroce, ancor più disperato.

Smile 2: valutazione e conclusione

Incubo e reale si fondono e confondono, in un horror d’atmosfera che osserva e sfrutta più linguaggi e registri visivi e narrativi, passando per il videoclip, il thriller, l’high concept movie e il dramma più profondo. È vero che Parker Finn ricorre ad un citazionismo cinematografico estremamente vario, ma è altrettanto vero che l’impronta autoriale è ormai riconoscibile, personale e autentica. È nato un nuovo autore, una nuova voce capace di tenerci incollati alla poltrona, in attesa di farci saltare e ancora distogliere lo sguardo e fuggire. Finn esprime appieno la propria intensità, attraverso una violenza efferata, che non si accontenta soltanto di qualche attimo splatter, ma anche di una deriva, il cui merito è quello di radicandosi abilmente in un immaginario gore particolarmente crudele, divertito e vintage, che ci ricorda i grandi cult della Troma Entertainment. La stessa fonte d’ispirazione, seppur non dichiarata, di Coralie Fargeat.

È un grande anno per il cinema horror, è un grande anno per Parker Finn. Smile 2 è fin da ora uno dei titoli horror più eleganti, riusciti e inquietanti del momento. Curioso ritrovare al suo interno, suggestioni del Suspiria di Luca Guadagnino, tra coreografie della morte, danze demoniache, palazzi austeri e ossa che si spezzano, lacerando noi e loro. Non perdetelo, è grande cinema.

Smile 2 è in sala a partire da giovedì 17 ottobre 2024, distribuzione a cura di Eagle Pictures.

Regia - 4
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 4
Recitazione - 4
Sonoro - 4
Emozione - 4

4