Berlinale 2019 – So Long, My Son (Di jiu tian chang): recensione del film
Con il delicato e commovente So Long, My Son Wang Xiaoshuai potrebbe conquistare l'Orso d'Oro alla Berlinale 2019. Ecco la nostra recensione del film
So Long, My Son, film di Wang Xiaoshuai il cui titolo originale è Di jiu tian chang, potrebbe essere il film che domenica 17 febbraio si porterà a casa l’Orso d’Oro della Berlinale 2019. Non perché sia il più bello del concorso, ma perché è il miglior candidato, un’opera geneticamente creata per incontrare il favore della giuria e di tutta una parte della critica che in film come questo vede l’essenza stessa di cinema.
La pellicola racconta la storia dei coniugi Yaoyun e Liyun, colpiti dalla drammatica morte del figlio, affogato mentre stava giocando in un serbatoio. Il dolore è troppo grande e la coppia cinese decide di trasferirsi in una città lontana di cui non conoscono nemmeno il dialetto. Adottano un bambino nella speranza che riempia il vuoto lasciato da quel tragico evento, ma il ragazzo non gli dà il conforto che speravano. “Stiamo solo aspettando di invecchiare”, dice Yaoyun, consapevole che – se non riusciranno a reagire, solo la morte gli darà la pace che cercano.
So Long, My Son è una saga familiare che copre tre decadi di storia cinese, mischiando la dimensione privata, con le vicende politiche di un Paese che sta cambiando. Assistiamo alle trasformazioni delle città, irriconoscibili grazie alla rivoluzione culturale, e viviamo in maniera intima e tragica la legge del figlio unico, che costringe le famiglie più povere a ricorrere ad aborti rischiosi per evitare di pagare una tassa salata.
Con So Long, My Son Wang Xiaoshuai incanta Berlino
Wang Xiaoshuai (già regista di Red Amnesia e Le biciclette di Pechino) proietta su un dramma domestico una critica sociale elegante e complessa che, vista con gli occhi della modernità e dell’ultracapitalismo che oggi non governa soltanto noi, ma anche (paradossalmente) la stessa Repubblica cinese, diventa una vera e propria esperienza culturale. Non si fa fatica, quindi, a immaginare come e perché il film possa essere il candidato ideale per trionfare in un festival come quello di Berlino, dalla buona reputazione e dalle nobili intenzioni.
So Long, My Son, però, non è facile da usufruire. Il film dura 3 ore. Sono 180 minuti drammatici, lentissimi, delicati e filmati in maniera splendida, ma pur sempre 180 minuti. È facile abbandonarsi alla sofferenza e dimenticarsi di quanto la pellicola sia bella e curata quando il tempo sembra proseguire a rallentatore. In fondo, però, il film di Xiaoshuai non accetta compromessi e ci si impone nella sua totale artisticità, si rifiuta di limitarsi, di rendersi più user-friendly. È un’opera d’arte ed è lo spettatore a doversi adattare.
Non è un film da vedere e rivedere, a meno che siate dotati di una resistenza di ferro, ma sappiamo già ora che So Long, My Son sarà studiato e portato ad esempio nelle scuole di cinema. È una masterclass potentissima quella di Xiaoshuai che usa e costruisce gli archetipi della settima arte per raccontare una storia commovente con l’eleganza tipica della virtù orientale e che siate o meno amanti della cultura cinese, il suo valore è oggettivo. Non facciamoci condizionare dai gusti personali – quelli arrivano dopo -, diamo la precedenza all’amore per il cinema.