Solo due ore: recensione del film di Richard Donner

Traendo spunto dai cliché del cinema poliziesco in voga almeno una decade prima della sua uscita, Solo due ore è un mix vincente di inseguimenti febbricitanti e sparatorie nell'anarchica New York.

Se si fanno due rapidi conti, non è poco il tempo che ci separa dall’ultima opera di Richard Donner: Solo due ore (o 16 Blocks, quelli entro cui si svolge l’azione) è uscito nel 2006, stesso anno in cui viene ufficialmente rilasciata la director’s cut di Superman II, a ventisei anni di distanza dalla sua uscita in sala. E, a (ri)vederlo bene, in Solo due ore non risultano pochi gli elementi che suggeriscono un’idea di cinema ormai parecchio lontana da quella che abita il cinema action degli ultimi tempi, plasmato e levigato sul modello del cinefumetto, sua più feconda forma.

La tagline di Solo due ore è piuttosto esplicativa: “1 testimone. 16 isolati”, il primo è Eddie Bunker (Mos Def), detenuto che fra circa due ore dovrà presentarsi al palazzo di giustizia poiché unico testimone per un’audizione di massima importanza. Viene incaricato di scortarlo in auto il poliziotto Jack Mosley (Bruce Willis), che quindi dovrà, pur malvolentieri, attraversare i 16 isolati da cui il titolo del film.
Quella che doveva essere una missione pulita e sbrigativa viene compromessa da alcuni eventi. Il primo è il tentato assassinio del testimone Eddie; il secondo è la scoperta che ne consegue, la rivelazione che vede la polizia stessa coinvolta nello sventato omicidio. Ciò che Eddie potrebbe certificare in aula di tribunale, infatti, è l’omicidio commesso da un gruppo di agenti corrotti. L’ultima cosa che Frank Nugent (David Morse) e gli altri poliziotti vogliono è lasciare che un episodio di sangue macchi per sempre le loro carriere.

Solo due ore: un film che trae spunto e beneficio dal “vecchio” cinema poliziesco americano

solo due ore Cinematographe.it

Reduce dal poco soddisfacente Timeline (2003) ma con addosso il ricco bagaglio cinematografico di chi ha sperimentato praticamente ogni genere, Richard Donner compie una manciata di passi indietro nel tempo, fermandosi agli anni ’90 de Il fuggitivo e Minuti contati e discostandosi con coraggio (e un pizzico di nostalgia) dall’ondata di ibridazioni che il cinema d’azione comincia a sperimentare nello stesso momento. Come l’opera di Andrew Davis e di John Badham, Solo due ore trae massimo beneficio dalle possibilità, dai ruoli e (perché no) dai cliché dell’universo filmico poliziesco americano risalente alla decade precedente per raccontare la società e dubitare dei suoi meccanismi più basilari: la sola scelta di accostare il bianco Bruce Willis, detective disilluso e taciturno, al nero e ben più loquace Mos Def (vera rivelazione del film) è chiaramente il tentativo manifesto di costruire i due personaggi principali a partire dal confronto di due esistenze che in seguito si riveleranno opposte solo per temperamento.

Alla nineties maniera, il nemico è ai piani alti, ma è assai più concreto e allarmante di quello che minacciava Gibson e Roberts, i due buddies di Ipotesi di complotto, che virava verso la conferma delle bizzarre teorie new age di inizio millennio: sebbene i buoni e i cattivi esistano e siano individuabili, infatti, si potrebbe affermare che quello di Solo due ore sia un avversario sì invisibile, ma sicuramente riscontrabile in tutte quelle dinamiche, fatte di salde presunzioni e preconcetti di varia natura, che muovono il mondo occidentale.

Solo due ore: un film molto più politico del previsto

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Se si vuole provare a indovinare chi aiuterà la coppia protagonista ad aggirare gli ostacoli della legge e delle istituzioni, ci si dimentichi del colore della pelle, della provenienza, delle capacità intellettive o dei valori dei personaggi che compariranno sulla strada; perché a implodere e sgretolarsi senza sosta, nel film di Donner, sono proprio i gruppi, nuclei che si credevano ferrei o edificati su chissà quale arbitrario elenco di codici morali. La straordinaria lucidità analitica del regista individua l’avversario in colui che muove i fili, sotto cui cedono le persone comuni, di qualsiasi etnia o nazionalità. I bianchi braccano bianchi con la stessa divisa, i neri tradiscono i neri con divisa diversa. Nulla è fermo, solido o stabile, insomma. Tutti possono cambiare, e tutto può trasformarsi, come Eddie insegna a Mosley a partire dalla promessa di migliorare, un giorno.

Quello dell’instancabile rinnovamento, o “rivoluzione”, della persona, contrapposto al pregiudizio contro cui Donner si scaglia con violenza (e che a ogni uomo affibbierebbe l’irremovibile etichetta di “cattivo” quando compie qualcosa di “cattivo”), è un discorso che fa di Solo due ore un film molto più politico di quanto non si tenda a credere. “Barry White rubava cravatte, te lo immagini?”, in mezzo al flusso incessante di parole che il prigioniero partorisce senza fermarsi mai, suona come uno scambio quasi vicino, incredibilmente, a una certa New Hollywood, terreno cinematografico dove il viaggio è una metamorfosi e dove i due individui soli, costretti insieme, trasmettono qualcosa di proprio, di fondamentale ma forse dimenticato, l’uno all’altro. Oltre al fermo immagine finale, che da solo cristallizza questo cambiamento in un sorriso, il cinema di Donner aggiunge alla ricetta inseguimenti febbricitanti, sparatorie e clacson nella sua anarchica New York di periferia. C’è davvero bisogno di altro, nel cinema?

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 3
Recitazione - 3.5
Sonoro - 3.5
Emozione - 3.5

3.3