Solo mia: recensione del film di Michael Civille disponibile su Netflix
Disponibile su Netflix e tratto dalla storia vera di Laura Kucera, Solo mia ricerca il thrilling sanguinolento e il sensazionalismo da docu-drama per sfiorare la complessità del tema della violenza domestica.
Tratto dalla storia vera della giovane Laura Kucera, sopravvissuta ad alcuni colpi di pistola esplosi per mano dell’ex ragazzo, e poi scomparsa nel settembre del 1995 per un fatale incidente d’auto in Nebraska, il thriller romantico Solo mia con protagonista Amber Midthunder, è fra le nuove uscite nella top 10 di Netflix. Diretto da Michael Civille su sceneggiatura di Matt Young, il film che ricostruisce dinamiche sentimentali ed epilogo violento, utilizza il linguaggio del docu-drama con (finte) interviste ai protagonisti per riportare in luce una storia di aggressività e di coercizione mascherata da love-story; una delle milioni di testimonianze annuali da parte di donne vittime di uomini incapaci di amare in libertà ma, come detto nei primi minuti del film, diverso per il suo ‘incredibile’ epilogo.
Solo mia: la storia (vera) di Laura, qui Julie
Folgorata dal viso angelico e dall’attitudine cordiale e al contempo disinvolta del nuovo agente di polizia David Barragan, interpretato dal bell’americano Brett Zimmerman, la neo-diplomata qui Julie aspira al college rimanendo fedele agli insegnamenti materni, trascorrendo le giornate fra progetti futuri e un lavoro come cameriera nel piccolo diner di Stenton Farms, tranquilla contea a sud del Colorado. Dopo alcuni mesi di frequentazione, il rapporto di attrazione e armonia fra i due s’incrina all’inquietante controllo di David su spostamenti e orari di uscita della fidanzata, costretta a spiegazioni non dovute e a spiacevoli monitoraggi domestici nel cuore della notte.
Nonostante la tendenza di Julie a giustificare quei primi comportamenti sospetti, la paura inizia a manifestare la sua aura più allarmante quando, nascosti da occhi altrui, David minaccia la sua vittima con un rastrello, rivoltando sin da subito le colpe su di lei, non appena scatta la prima denuncia in centrale. Ma Strenton Farms è troppo piccola per disperdere il ronzio sull’accaduto, e a Julie vengono colpevolizzate dicerie sulla sua precaria salute mentale, abuso di alcool e comportamenti libertini che avrebbero portato, e dunque giustificato, gli atti, falsificati, del bravo agente. Insospettabile per indole e uniforme simbolo di intangibilità, lo stesso agente un giorno sferra una serie interminabile di colpi di pistola, credendo Julie, esanime e ferita, corpo morto fra i boschi di Coldwater Hills. Verrà ritrovata, ancora viva, quattro giorni dopo.
Nella ricerca evidente di mostrare la straordinarietà del suo epilogo, il film del 2019 diretto da Michael Civille si priva della normale complessità che genera la violenza dal partner
Alla ricerca di un sensazionalismo atrofico e vacillante per riuscire a maneggiare con profondità richiesta il complesso e urgente discorso sulla violenza di genere, e la sua rappresentazione mediatica e trasversale, Solo mia appiattisce il volume della storia verso un thriller sporcato di sangue e colpi di scena, ridimensionando la vittima e il carnefice a figure monodimensionali prive di spigolature. Lei, la promettente giovane americana incapace di qualsiasi cattiveria, scambia con ingenuità l’idillio romantico del virile poliziotto, a sua volta dipinto come un mostro a due facce: quella angelica e attraente, e quella incontrollabile e coercitiva.
Mancando di una reale comprensione sulle dinamiche relazionali e della normalità a piccoli passi che spesso accerchia e stritola la libertà quotidiana di una donna per mano del compagno, il film quindi tende a rincorrere, e ripercorrere, lo schema dell’incubo a occhi aperti, con oggetto il classico homme fatal enigmatico, distruttivo ma dallo charme manipolatorio. Tutto questo, dunque, frena nella straordinarietà della vicenda qualsiasi discorso più ampio e comprensivo dell’escalation della violenza: prima abuso emotivo, poi fatale atto criminale di tentato femminicidio, rovesciato poi con un abile colpo di scena.
Solo mia perciò, non restituisce al tema alcuna funzionalità sociale, privando il pubblico di pari consapevolezza e definizione sulle sfumature della violenza intesa per prima come fatto culturale (in questo caso quella della chiamata intimate partner violence), sollevando, come suo preciso compito, domande sul fenomeno e fornendo strumenti necessari alla ramificazione quotidiana di dinamiche fondate su rapporti disuguali. Rapporti di dominio e brutalità come è accaduto a Laura e, come lei, ad altre milioni di donne, ancora oggi.