Sotto le stelle di Parigi: recensione del film di Claus Drexel
Dal 25 novembre 2021 al cinema con Officine Ubu, Sotto le stelle di Parigi è la fiaba urbana dai buoni sentimenti più coraggiosa dell’imminente periodo natalizio. Al netto di facilonerie e semplificazioni, il film diretto da Claus Drexel non si nasconde dietro i placidi cliché dei raconti urbani e sceglie gli ultimi tra gli ultimi come protagonisti. Una clochard e un bambino immigrato gareggiano alla conquista dello spettatore in un’avventura che non darà tempo per le scelte mentre illustra un catalogo dei volti umani stesi ai piedi delle tendopoli parigine. Gioca facile, Claus Drexel, con una donna che si presta madre e un bambino dagli occhi grandi, ma gioca davvero. Sotto le stelle di Parigi prova affetto per il popolo dei dimenticati e racconta (quasi) tutti gli altri, quelli che vivono la città oltre il livello del fiume, come testimoni di un’umanità consumata e senza cuore.
Sotto le Stelle di Parigi, la fiaba del reale
Ai confini del mondo – “Au Bord Du Monde” come titolò nel 2012 proprio un documentario di Claus Drexel – vive Christine (Catherine Frot). Vagabonda, clochart; conosce le dimensioni nascoste della città. Sotto le stelle di Parigi sopravvive ai giorni, senza grandi intoppi o sorprese. Le stelle appaiono subito, nel film di Drexel. Ci danno il benvenuto in una fiaba urbana che non manca mai di ricordare le affinità con il reale. Non è il castello disperso nel tempo ma la metropoli contemporanea, abitata da plotoni di tendopoli con immigrati e francesi au bord du mond. La Francia di oggi, cartina tornasole d’Europa, negli occhi di un bambino eritreo, Suli (Mahamadou Yaffa), fuggito da un hotspot d’accoglienza e in cerca della madre. Appare in una notte buia e senza stelle, cadendo nella vita di Christine per cambiarla oltre ogni previsione. Suli non conosce il francese: non può essere ingannato dalle parole burbere di una donna che mentre dice “sciò via di qua” apre gli occhi all’abbraccio. “Io là, tu di là”, un’espressione che significa distanza è accolta dal piccolo Suli come forma di speranza, convinto che “Là” sia il nome della signora pronta ad aiutarlo. E così, dopo i primi dinieghi, Christine cede al bambino e ha inizio una turbolenta Odissea in cerca della madre perduta. Lasciamo Parigi, che si era concessa in un prologo lento e dedicato a chi vive ai capolinea della città, una galleria che riporta al centro la sensibilità realista di Drexel, e vagabondiamo pieni di speranza. Accanto all’umanità di chi si aiuta per sopravvivere – la gentilezza dei giovani ai centri immigrati – c’è un orco dai molti volti: le istituzioni di un paese, le divise di uno Stato. Poliziotti, netturbini, responsabili. A ogni livello: la divisa, la responsabilità, la burocrazia, alza barriere che parlano ogni lingua. Io là, tu di là, per davvero. “I migranti che ci invadono, meglio i barboni”, la classifica degli ultimi, la gerarchia dell’umanità si spezza nell’avventura di Catherine e Suli.
La complessità che manca
In tutta questa complicata varietà – di vite, origini, provenienze – Sotto le Stelle di Parigi si abbandona troppo presto alla semplcità. Una fiaba dev’essere semplice all’ascolto, non facile nell’esaurirsi. Christine e Suli sono attorniati di Divina provvidenza, ossia meccanismi di deus ex machina che sopraggiungono a rimuovere gli ostacoli del percorso, e giungono alla meta in un viaggio tutto sommato lineare.
Non è il finale strappalacrime o già scritto a impedire a Sotto le Stelle di Parigi di conquistare un posto d’onore nella riflessione contemporanea, bensì l’estrema linearità del percorso. Inoltre, Drexel decide che il contrario di un assoluto è l’assoluto opposto. Se dunque l’intento è di rispondere alle facilonerie razziste dei “tutti criminali, tutti stupratori, tutti ladri”, Sotto le Stelle di Parigi costruisce un mondo contrario in cui è tutta bontà dispersa tra i ciottoli della città. Delle sfaccettature di una realtà osservata dal piccolo Suli attraverso il caleidoscopio regalato da Christine non ne appare che un frammento residio e sfocato.
È all’ultimo momento però che Drexel tenta il colpo di mano e pone sotto accusa proprio lei, la città. “Dedicato a Christine e a tutti gli altri”, recita il testo su schermo, mentre la prima vera visione di Parigi sopra il livello del fiume chiude il film. La città incriminata, controcampo dei numerosi primi piani di umanità dimenticate e incontrate ovunque, dai campi di tende stesi come un nuovo mare urbano, agli accampamenti di fortuna lungo le boscaglie fuori dal centro. Come lo sguardo rabbioso di Mamma Roma sulla città che gli ha portato via il figlio, Sotto le Stelle di Parigi guarda un orizzonte europeo. Forse consapevole che quella fiaba, nella realtà, avrebbe avuto più ostacoli, e forse un finale diverso. Un peccato non averlo visto. Perché anche una fiaba può – e deve – non aver paura della complessità, degli ostacoli del percorso. Oltre a catalogare la scomparsa della compassione (mansione utile e urgente), Sotto le Stelle di Parigi avrebbe potuto inserirla nel racconto per vedere che succede quando due imprevisti umani, un bambino e una madre, affrontano un viaggio nel reale, nella melma che vive proprio in quell’orizzonte urbano.