Venezia 77 – Spaccapietre: recensione del film dei fratelli De Serio
Recensione di Spaccapietre, il film con Salvatore Esposito diretto dai fratelli De Serio, presentato in anteprima a Venezia 77.
Spaccapietre dei gemelli De Serio ha il grande merito di far tornare il cinema italiano in carreggiata, in questa 77^ Biennale dove, per ora, a parte il documentario di Rosi, non è che lo cose vadano troppo bene. Tuttavia, questo film non ha dalla sua solo la lodevole nobiltà dell’intenzione di fare un film che parli in modo crudo e schietto della realtà degli ultimi, dei perdenti, degli schiavi del caporalato e di questo nuovo mondo globale.
Spaccapietre ha dalla sua una notevole scrittura, uno sguardo lucido, spietato, mai adombrato da un intento pietista o melodrammatico, quanto piuttosto connesso alla grande e gloriosa tradizione del cinema sociale italiano, per quanto ogni connessione al neorealismo sia alquanto eccessiva ma più che altro impropria. Si tratta però senz’altro di un film girato con mestiere (forse non quanto serviva), talento, idee chiare e con la chiara finalità di non risparmiare nulla ad un pubblico che la parola sfruttamento spesso la conosce, ma il livello a cui esso può arrivare non lo immagina.
Spaccapietre è un viaggio dentro il degrado
Protagonisti di Spaccapietre sono il corpulento e silenzioso Giuseppe (Salvatore Esposito) ed Angela (Antonella Carone), genitori del piccolo Antò (Samuele Carrino), famiglia povera e aggrappata un tempo al lavoro nella cava di Giuseppe, che a causa della tragica morte della consorte, è costretto a sottostare alla terribile realtà del caporalato nei campi per guadagnare qualche soldo. In breve, per i due comincerà un viaggio dentro un inferno fatto di fatica bestiale, paghe da fame, violenza, ritmi di lavoro spietati, paura e terrore per i “capi”, sorta di dittatori con il diritto di vita e morte.
Spaccapietre dei gemelli De Serio è cinema nella sua accezione più pura e più utile al pubblico, se non altro a quello che si pone come obbiettivo il guardare senza paura la realtà, quella polverosa, sporca e diroccata di un’umanità abbandonata da decenni a se stessa, alla crudeltà dell’uomo verso l’uomo. Non vi è retorica né la volontà di addolcire la pillola, né di farsi distrarre da elementi narrativi assolutamente fuori dal contesto, o di virare verso un’altra direzione cinematografica. Tutti difetti che hanno sovente costretto il cinema italiano ad assistere a naufragi perentori.
Un film che sposa lo sguardo di un bambino
Salvatore Esposito si cala bene nella parte, nel ruolo, per quanto sempre con un certo eccesso di umiltà si potrebbe dire, o forse con una mancanza di volontà di andare oltre i binari, oltre ciò che ci si aspetta dal suo personaggio. Tuttavia, rimane senza dubbio un’interpretazione degna di nota, il suo corpo enorme, il suo incidere lento, sono perfetti simboli di una rassegnazione antica, di un’esistenza da perdente, da soggiogato.
In Spaccapietre però il vero protagonista è senza ombra di dubbio il piccolo Samuele Carrino, lo sguardo con cui il suo Antò chiede verità ed assieme conforto al padre, con cui scopre mano a mano, giorno dopo giorno, la triste realtà di una vita che divora la sua infanzia, i suoi sogni, che lo costringe a crescere davvero troppo in fretta e troppo male.
Il tutto è fin troppo familiare a chi segue quella realtà, a chi se n’è fatto carico od informato, ma il film dei De Serio va oltre, ci offre una dimensione padre-figlio vivida, tenera, mai banale e dove colpisce il sorreggersi a vicenda, l’andare avanti a dispetto di tutto.
L’insieme di cose che è Spaccapietre
Spaccapietre non è completamente neorealista, non è neppure verista, a tratti infatti sposa anche la dimensione road-movie, una diegesi che fa della normalità un’eccezione, dell’affetto un piccolo angolo di mondo con cui ricordarsi che si è vivi. Forse l’unica pecca è nella fotografia, davvero troppo terra-terra, e che valorizza poco una natura arida, ostile ma comunque suggestiva, così come l’insieme di una miseria anche fisica, strutturale, che rende questo film un viaggio terribile.
Tuttavia, la regia è piena di passione, per quanto la colonna sonora dei Gatto Ciliegia sia davvero incomprensibile come scelta. Sono evidentemente peccati di gioventù di un duo di registi che però rappresenta senza ombra di dubbio il futuro del nostro cinema, davvero mal messo e poco ispirato, incapace di donarci uno sguardo feroce e onesto su una piaga sociale tanto attuale quanto irrisolta. Di certo, dopo tanti film su gangster, malavitosi, guappi da quartiere, forse non sarebbe male vedere un ritorno stilistico e tematico ad una dimensione di maggior impegno e impatto, ad un cinema che ci metta di fronte alla realtà di un paese fermo ancora al medioevo in troppe campagne meridionali.