Specchio, specchio: recensione del film spagnolo Netflix
Quattro dipendenti di una ditta di cosmetici affrontano i rispettivi desideri dialogando allo specchio con loro stessi, tra ambizioni, rivelazioni e insicurezze esistenziali.
Nonostante la sua durata stringata (poco più di un’ora e 15 minuti), il nuovo film dello spagnolo Marc Crehuet Specchio, specchio – disponibile su Netflix a partire dal 16 settembre – è un lavoro estremamente stratificato e sfaccettato, capace di affrontare molte questioni al centro del dibattito contemporaneo. Siamo, anzitutto, dalle parti della commedia situazionista, tutta ambientata in una stessa unità di luogo: gli uffici della Medina Cosmetics, popolati di dipendenti e responsabili più o meno insoddisfatti della loro esistenza.
Per certi versi Specchio, specchio ricorda Il capo perfetto, soprattutto nel suo incipit: al posto di Julio/Javier Bardem, padrone di una ditta di bilance, qui c’è Álvaro, altrettanto mellifluo capo estremamente convinto del proprio carisma e delle proprie presunte abilità lavorative. Álvaro seduce (anzitutto, se stesso), si ama, si convince di essere vicino alla perfezione… fino a quando non si guarda allo specchio, iniziando un articolato e via via sempre più problematico dialogo con il suo doppio.
Specchio, specchio: il tuo riflesso ti dice veramente chi sei
Il punto di partenza del film può sembrare in effetti un po’ scontato: il tuo riflesso rivela la tua vera essenza, senza filtri. Un concetto già approfondito largamente in passato, non solo ovviamente al cinema. Ma il film di Crehuet cerca di dare un tocco in più: l’interazione con la propria immagine porta alcuni personaggi a rimanerne privi e a pensare che dall’altra parte ci sia una diversa vita di cui non sanno nulla. Dove vanno a finire i nostri riflessi quando non siamo davanti a una superficie che ci duplica?
Nella vita, abbiamo costantemente a che fare con noi stessi. Una parte di noi vuole qualcosa, ma l’altra vuole il contrario. Cristina, Paula, Alberto e il sopraccitato Álvaro sono impiegati in crisi, che combattono per ottenere ciò che desiderano, mentre affrontano le proprie ambizioni, le paure, i sentimenti e i demoni che attraversano le loro diverse quotidianità. Lo specchio diventa quindi un (non) luogo in cui esprimere i propri dubbi, le proprie incertezze, o in cui al contrario sentirsi pienamente realizzati.
Mostrare la dualità che abbiamo con il nostro vero io
Oltre ad essere una tanto breve quanto intensa riflessione sull’identità “in” genere, Specchio, specchio col passare dei minuti diventa anche un approfondimento sull’identità “di” genere e sull’universo LGBT, soprattutto grazie alle due sorelle Cristina e Paula: il doppelgänger della prima la spinge alla scoperta della propria disforia, mentre la seconda – stagista entusiasta e piena di idee – cavalca con successo i temi della gender equality (ma ci crede davvero? Il suo progressismo è una causa in cui credere o solo un gioco alla moda?). È questa focalizzazione la parte probabilmente più riuscita del film, quella più compiuta e che non inciampa mai su se stessa.
Perché per quanto Specchio, specchio riesca a dimostrare le sue ipotesi, tra la denuncia alla società dell’immagine e quella ai vizi di un ambiente di lavoro tossico, non si può negare che nel suo ultimo atto la sceneggiatura lasci confusi e vagamente interdetti. L’umorismo nero resta ben calibrato, la spinta parodica continua a funzionare; ma il colpo di scena finale – che eviteremo naturalmente di rivelare – apre a una nuova metaforizzazione che avrebbe meritato un migliore sviluppo. Un’improvvisa fretta che non inficia il messaggio di fondo: sono le nostre azioni che finiscono per definirci, ma, prima di prendere qualsiasi decisione, una parte di noi deve imporsi sull’altra.