Spider-Man: No Way Home – recensione del film con Tom Holland
Dal 15 dicembre in sala, Spider-Man: No Way Home si conferma l'Endgame di Peter Parker. I giochi sono finiti ed è tempo delle scelte difficili.
Se ti aspetti una delusione non puoi essere deluso. Sono parole di MJ, la Michelle Jones interpretata da Zendaya e non una delle tante Mary Jane Watson disperse nel multiverso. La nostra, quella che vive nel mondo in cui Spider-Man è appena stato smascherato da Mysterio, è la più cinica e parca di apparente indifferenza. Della vita non si fida, ma di Spider-Man sì. Ha ragione, e dovremmo ascoltarla. Perché Spider-Man: No Way Home non delude. L’attesa, quella di cui ci parlava un Captain America burlone nella scena post-credits di Spider-Man: Homecoming (2017), “a volte è la chiave per la vittoria”, altre invece “ti domandi: come mai ho aspettato tanto per una cosa così deludente?”. Dopo decine di leak, indiscrezioni e trailer l’attesa è finita, e Spider-Man: No Way Home si presenta al pubblico di fan con due ore e mezza del miglior cinema d’intrattenimento che si potesse chiedere. Il film di Spider-Man che ricorderemo più a lungo.
Spider-Man: No Way Home è il miglior film d’intrattenimento Marvel
Non è la rivoluzione del mezzo che tenterà il nuovo Matrix: Resurrections dall’1 gennaio 2022, ma è di certo un’importante vittoria nel mondo Marvel, nel mondo di Spider-Man (che torna a chiudere una trilogia dopo quattordici anni) e in quello strano genere chiamato MCU. Dove l’azione, il sentimento, la commedia e persino la tragedia arriva da ogni angolo del multiverso al servizio della spettatore e della storia percorsa. Agli spettatori già in fila, sopravvissuti a ore di coda in quella Battle Royale chiamata prevendita, possiamo dire che aldilà delle aspettative e delle promesse più o meno mantenute, Spider-Man: No Way Home è il film che stavano aspettando. E non perché ci sia (o non ci sia) tutto quello in cui speravano. Ma perché l’ultimo film con Tom Holland è il punto d’arrivo intelligente di un percorso iniziato vent’anni fa, quando Willem Dafoe, Sam Raimi e Tobey Maguire irrompevano nel nuovo millennio annunciando, in una rimediazione del mondo fumettistico, un futuro di maschere, grandi poteri e grandi responsabilità.
Tom Holland eredita una storia e più di qualche generazione, le ultimi delle quali potranno perdersi in un groviglio di citazioni e rimandi a film ormai lontani dagli eventi dell’MCU. Un ripasso sarà forse necessario ad apprezzare il gioco di intrecci – il Goblin di Willem Dafoe riutilizza spesso battute e toni del primo Spider-Man – ma anche per riportare al centro dell’inquadratura la ragione per cui quest’eroe è diventato l’unico capace di non esaurire mai il proprio fascino, e di anno in anno tornare sugli schermi del mondo. Quando ancora internet non era il centro della realtà – e Peter Parker cercava sui giornali gli annunci di auto usate per fare colpo su MJ – Spider-Man rifletteva sull’identità, e sull’importanza di essere persone oltre che eroi. Ma se la nostra libertà poggia su quello che gli altri non sanno di noi, la rivelazione di Mysterio al mondo intero, con i mega schermi di Manhattan a rilanciare la trasmissione del Daily Bugle con il faccione di Peter Parker affiancato a Spider-Man, è davvero l’Endgame del personaggio. È il tempo delle scelte, e il “Bimbo-ragno” ne uscirà più adulto di tutti. Come disse Dafoe, in quel primo film che scrisse su pietra i temi e le ferite del personaggio, “Fai la tua scelta, Spider-Man”. Caduta la maschera, persa la libertà, confusa l’identità, sarà Peter Parker a prendere le decisioni più difficili.
Il problema sei tu, che cerchi di vivere due vite
Lo Spider-Man di Tom Holland ha sempre vissuto una vita peculiare rispetto agli omonimi colleghi. La coralità delle sue vicende non ha mai permesso al personaggio di affrontare una reale condizione di solitudine. Tobey Maguire perdeva Zio Ben, Andrew Garfield anche, senza contare l’amata Gwen. Erano storie di lutto, cucite come ferite riaperte a ogni oscillazione tra i grattacieli di New York. Tom Holland perde Tony Stark, vero. Ma è sempre parte di una famiglia più grande: Zia May che lo sprona a fare la cosa giuta, MJ e Ned, Happy e persino gli Avengers. Questa è casa sua. Non a caso il film intitola No Way Home. Quando il nome di Peter viene pronunciato da J.Jonah Jameson – famigerato direttore del Daily Bugle, di cui speravamo di vedere qualche scena in più – il logo Marvel glitcha. La rivelazione cambia gli equilibri, e infatti Spider-Man: No Way Home è un film senza la proporzione dei capitoli precedenti. La Home Saga – come sono stati soprannominati i film di Spiderman con protagonista Tom Holland – rivede la rete di relazioni su cui poggia e sviluppa l’arco del personaggio. In mezzo alla folla, Peter riconosce MJ (Zendaya). Disperata e confusa, si stringe al compagno mentre la porta via tra i grattacieli della Grande Mela. È il loro rapporto a rubarci gli occhi e il cuore nelle scene più sentimentali. Si videochiamano interrogandosi sul da fare. Salgono sui tetti per leggere di loro stessi, raccontati dalla stampa con il consueto amore per le fake news. Occhi lucidi e sorrisi. L’armonia tra i due convince e costruisce un film parallelo ma per la prima volta non concesso, quel teen movie dai tona rosa che da sempre scorre sotto ogni trama dedicata a Spider-Man. Solo nel prologo sembra di intravvedere quelle vicende da studente che guarda al futuro, tra college e vita da coinquilini. Ma per quel film ci vorrebbe equilibrio, richiesta paradossale per una storia di multiversi in scompenso.
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Anche le note composte da Michael Giacchino raggiungono picchi mai uditi, con archi che cercano in ogni modo di circoscrivere l’epicità, di supportare la grandezza degli eventi senza schiacciare un personaggio sino ad ora rilegato alla vita da studentello, erasmus sul pianeta Titano a parte. Il vaso di Pandora è stato aperto, e i visitatori da altri universi hanno iniziato a soffiare sulla casa di paglia di Peter. Cinque i supercattivi giunti a scompigliare una voltà ancora la vita di Spidey. Noi li conosciamo, ma lui no. Il nostro vantaggio sul protagonista – visibilmente confuso dai pittoreschi figuri comparsi dal nulla in seguito al fallito incantesimo di Dottor Strange – si rivela essenziale ai fini di Spider-Man: No Way Home. Il dramma di questi personaggi – condannati a morte se ricondotti nei loro universi – non necessita di spiegazioni. Lo spettatore in sala li conosce già, apparsi nella trilogia di film firmata da Sam Raimi dal 2002 al 2007 e nella coppia di pellicole con protagonista Andrew Garfield. Il coinvolgimento ce lo portiamo da casa, ma è in sala che prende forma. Gli aspetti extra-testuali, come extra (esterne) sono le aspettative costruite da una finissima campagna marketing, diventano storia, come solo i Marvel Studios (in questo caso in collaborazione con Sony) sanno fare. E così il film può permettersi di realizzare molti dei colpi di scena usando l’azione, con i dialoghi che si ritagliano il ruolo della commedia – immancabile nell’MCU – e di evidenziatori delle ferite di ogni personaggio.
La colonna sonora perfetta di Michael Giacchino e i personaggi di Spider-Man: No Way Home
Spider-Man: No Way Home è infatti un film montato con punti di sutura. I primi sono di Peter, certo, ma seguono i profondi e già segnati dal destino dei vari Lizard, Sandman ed Electro. Se a questi è però concesso lo spazio necessario a perturbare l’azione e aumentare il livello di confusione-contenuta, sono Green Goblin e Doc Ock a raccontare invece una vicenda parallela, solo in apparenza lontana da Spidey. Non stupisce che Alfred Molina e Willem Dafoe riescano a ipnotizzare la sala, ma è stupefacnete toccare con mano la capacità dei due attori di giocare sulle identità ferite e corrotte – entrambi sono giunti al lato oscuro in seguito a degli incidenti di laboratorio – facendo affidamento solo alle perturbazioni del volto ancor prima che alla CGI che attornia da inizio a fine il film. Significato, ai fini della riflessione sull’identità, che Goblin scelga di liberarsi della maschera, obbligando Dafoe a dare forma al mostro con il solo uso del corpo.
Nelle loro interpretazioni prende forma il tema portante del multiverso introdotto di recente nel MCU. È il fato a interrogare Peter e i villains, confusi in un ruolo di avversari e comprimari che di certo lascerà sbalorditi e affascinati i più, seppur consueto nelle vicende del personaggio ma mai così sfacciato. “Stai per intraprendere un viaggio nell’oscurità per catturare un fantasma”, avvisa Doc Ock. Perché Goblin, nel suo universo, è già morto, e come lui gli altri. Questo è il destino. E non si può cambiare, ribadisce con forza Dottor Strange.
Strange è un personaggio alquanto scomodo nell’insieme narrativo che comprende Spider-Man: No Way Home e l’intero Marvel Cinematic Universe. Come fu in Endgame, Strange osserva l’eroe realizzare il fato. Persino lui, stregone dai poteri illimitati, non può niente contro l’ineluttabile, quello reale e non auto-proclamatosi di Thanos. E dunque ancora una volta osserviamo lo sguardo truce di Benedict Cumberbatch attendere che Peter prenda la scelta più difficile.
L’incontro tra i due è ambiguo, perché più che un collega, Strange è un esecutore, non dissimile dalle divinità greche capaci di tutto ma comunque soggiogate al più alto fato. La sequenza che li vede scontrarsi è una variegata scelta di colori e trasformazioni geometriche che prendono il meglio dal film dedicato allo stregone, apparso anche negli ultimi Avengers, e dalle iridescenti sequenze illusione di Mysterio in Far From Home (2019). La natura corale di Spider-Man: No Way Home obbliga a scelte tonali vicine al pastiche, con alcune riprese colte a piene mani dai film di Raimi, che concedono finalmente di osservare il tramonto sullo skylane di New York (non c’è più spazio per il Queens), miste al mondo narrativo di Holland e alla fotografia crepuscolare di Infinity War. Peccato solo che si scelga spesso di sacrificare la profondità di campo per ritagliare i protagonisti delle scene come fossero figurine che galleggiano nel nulla.
“Nel gioco del multiverso, il loro sacrificio ha più valore della loro vita”. Le parole di Strange sono di natura drammaturgica: ci parlano dei film di Spider-Man, dove la morte del cattivo (sempre autoinflitta per destino e mai causata da un’azione diretta di Peter) realizza l’eroe. Il villain come funzione narrativa si trova in Spider-Man: No Way Home a conquistare un ruolo diverso, dove l’identità torna protagonista. Chris Mckenna, già sceneggiatore dei primi due capitoli con Tom Holland, riesce nell’impossibile: non rinuncia a niente e fa tornare tutto. Quello che lo Spider-Man 3 di Sam Raimi, dopo continui rimaneggiamenti e storpiature imposta al regista dalla Sony, non era riuscito a fare. Siamo consapevoli che la distrazione, permessa tanto dalle esplosioni quanto dalle continue ricadute emotive, sia strumento irrinunciabile per la scrittura di film così ad ampio respiro da non poter in alcun modo rinunciare alle deformaizoni o alle capriole narrative, ma Spider-Man: No Way Home arriva allo spettatore trovando un ordine imprevisto e dopo avergli fatto saggiare il vuoto lo riacciuffa con la ragnatela dell’ultimo momento. Come i bambini seduti accanto a noi, ci aggrappiamo all’eroe. Anche se è un No Way Home, siamo tornati a casa.
Riuscito è di certo il conflitto interno a Spider-Man/Peter, che per la prima volta si manifesta – in una reincarnazione quasi freudiana della divisone dell’Io – pur mantenendo saldo il valore allegorico. La scelta tra due vite impone un bivio: No more Spider-Man o No more Peter? Visto il coinvolgimento in sala, non abbiamo dubbi che qualunque risposta vedrà il pubblico applaudire, asciugarsi le lacrime e promettersi di tornare, quando sarà, a scoprire il futuro di un personaggio costretto a crescere. Spider-Man come inevitabile eroe di una società condotta dagli istinti adolescenziali. Ma ora che anche il bimbo-ragno è cresciuto, la scelta torna allo spettatore.