Roma FF17 – Steno: recensione del documentario di Raffaele Rago
Alla Festa del cinema di Roma, un film documentario su uno dei padri della commedia all’italiana, Stefano Vanzina alias Steno, tesse l’elogio del professionismo e di una certa libertà dal politically correct.
La sua personalità ferma e autorevole cozzava con il fisico esile, “da ballerino di tango”: Stefano Vanzina, conosciuto con il più incisivo ipocoristico Steno, è stato vignettista al Marc’Aurelio – la stessa rivista satirica da cui è partito Federico Fellini –, sceneggiatore e regista per un lungo periodo della sua e della nostra Storia, dalla fine degli anni Quaranta agli Ottanta. Il documentario di Raffaele Rago ne celebra la professionalità, la classe nel vestire e nel pensare, la consapevolezza che anche far ridere è, in fondo, un impegno civile, per cui servono intelligenza, preparazione, senso di responsabilità, un garbo che nondimeno si riserva di non fare sconti.
Steno: un documentario ricorda uno dei padri della commedia all’italiana, nonché il primo regista di un film a colori e l’iniziatore del poliziesco nostrano (amato da Tarantino)
Padre della commedia all’italiana, primo regista italiano a girare un film a colori e pioniere del poliziesco in un Paese, l’Italia, deserta di una vera tradizione del cinema di genere, Steno aveva del suo lavoro una concezione alta, ma non intellettualistica, imperniata su un professionismo rigoroso, che festeggiava presentandosi agli appuntamenti sul set in giacca e cravatta. La forma per lui, da buon piemontese, era sostanza e, quando, dopo aver omaggiato Audrey Hepburn di un mazzo di fiori, questa si complimentò con lui per “l’eleganza” del gesto, s’appuntò al petto l’apprezzamento della diva come una medaglia, quale un’etichetta definitiva e nobilitante di un primato delle maniere che diventa sostrato dell’essere.
Il suo tratto distintivo fu sempre l’aplomb e il rifiuto dello stile di direzione disorganizzato, istrionesco e chiassoso che sembrava andare per la maggiore tra i colleghi che facevano delle proprie eccentricità e spacconate un vanto, il segno di un genio indomabile. Attraverso le inquadrature, che preferiva ai piani sequenza, Steno dava ritmo al racconto visivo: non possedeva tuttavia soltanto una competenza tecnica, ma un senso dell’insieme che gli derivava dalla cultura e da una preparazione enciclopedica, non settorialistica.
Steno: ridere per alleggerire la natura beffarda dell’esistenza; ridere per riflettere e capire
I suoi film, spesso co-diretti con Monicelli, con protagonista Totò, rappresentarono, nel secondo dopoguerra, il paradigma di una comicità non solo intrattenitiva, ma asservita alla riflessione e alla sviluppo di una coscienza critica da non intendersi più individualmente, ma collettivamente, quale patrimonio comune agli Italiani che si lasciavano alle spalle il fascismo e le miserie dei decenni precedenti. Considerato a torto regista del disimpegno da una certa critica militante, Steno ai figli –Enrico e Carlo, scomparso nel 2018 – che, nonostante il suo disappunto, ne seguirono le orme insegnò che per fare cinema non bastava imparare a fare cinema, ma era anzi necessario “leggere tutta la letteratura possibile, guardare quadri, ascoltare musica”. Lino Banfi ricorda la libertà e la leggerezza con cui si concedeva di far ridere attraverso la caricatura del diverso – qualunque cosa significhi questa parola, come fa notare Massimo Ranieri – ed ironie che oggi non sarebbero più concesse, ghigliottinate dal politically correct, e contestualmente si chiede se sarebbe possibile, ora, fare un film come Dio li fa poi li accoppia (1982) in cui, dietro guida di Steno, impersonava un salumiere gay che domanda a un sacerdote di paese di celebrare le sue nozze con il compagno Marco.
Attraverso la collaborazione degli attori che ha diretto, del figlio Enrico, dei colleghi cineasti, Raffaele Rago raccoglie, così, frammenti di memorie e suggestioni che, disposti e organizzati, restituiscano, almeno in parte, il ritratto di un uomo di cinema serio, ma non dogmatico, convinto che il suo mestiere, più che un’arte, fosse un impegno per cui, a dispetto delle apparenze, fosse doveroso non farsi mai trovare troppo ‘sbracato’ perché “anche le cose futili rivelano qualcosa, e anzi spesso sono più significative di quelle ritenute importanti”. Ed allora sviluppare l’attenzione per le futilità non è esercizio proprio del mestierante, ma apertura a ciò che di rivelatorio resta incagliato nella superficie delle cose, nell’estetica etica del divertissement.