Still Life: recensione del film di Uberto Pasolini, miglior regia Orizzonti a Venezia 70
Still Life è un film contemplativo, ricco di spunti riflessivi sulla vita e sulla morte, ma anche sulla solitudine intrinseca alla condizione umana.
Still Life rappresenta una celebrazione silente e sommessa della condizione umana: fatta di anni passati cercando di forgiare una traccia di sé in grado di sopravvivere ai propri giorni, conferendo un senso profondo e innanzitutto accettabile alla mortalità. Un passaggio che il protagonista John May (Eddie Marsan), funzionario comunale addetto alla ricerca dei parenti di persone morte in totale solitudine, decide di dedicare alla valorizzazione di chi muore senza nessuno che lo pianga, o che almeno si preoccupi di provvedere alla dignità di un rito funebre.
Le giornate di John May appaiono rigorose e metodiche, composte dagli stessi passaggi: la ricezione della telefonata che comunica il decesso, la visita dell’abitazione del defunto e la raccolta di dati e informazioni sulla vita della persona scomparsa, utili non solo a rintracciare eventuali parenti ma soprattutto a dargli un volto ed un’identità, per poi stendere poche ma sentite parole di commiato da leggere al funerale solitario da lui stesso organizzato, allo scopo di rendere onore a quelle vite dimenticate da tutti ancor prima di essere finite.
La morte dell’uomo che viveva proprio di fronte a lui sarà l’ultimo caso da risolvere per l’impiegato, prima di essere licenziato dal proprio ruolo, divenuto ormai troppo dispendioso per le casse del comune. John May vi investirà allora tutte le proprie risorse per portarlo a termine con successo, riuscendo per la prima volta ad abbandonare qualche rigidità di troppo e a lasciarsi andare finalmente all’imprevedibilità di una vita che forse non aveva ancora mai vissuto.
Il viaggio per andare a cercare di persona i parenti di Billy Stoke, alcolizzato il cui unico indizio di una vita familiare è rappresentata da un album di fotografie che ritraggono una bambina, forse la figlia, permette a John di fare nuove piccole grandi esperienze, ricordandogli per la prima volta di vivere anche la propria di vita, e non solo quella degli altri, ormai giunta al termine.
Still Life: la vita nascosta dietro la staticità di una natura morta
Il titolo dell’opera di Uberto Pasolini racchiude la duplicità della chiave di lettura del film: la traduzione letterale (natura morta) rende infatti onore solo all’aspetto esteriore della vita del protagonista, una persona statica, la cui esistenza sembra essere confinata ai “contenitori” in cui si svolge – casa, ufficio e obitorio – tutti rappresentati per mezzo di una fotografia che ne sottolinea la freddezza e asetticità. Ma dietro l’apparente passività di John May si nasconde un uomo vitale, che nel profondo rispetto della fine della vita altrui esprime tutta la sua sensibilità e il desiderio di non essere dimenticato, ricordando a se stesso, nel vivere la vicenda di Billy Stoke, che anche la sua è ancora una vita, cambiando l’interpretazione del vocabolo still da aggettivo ad avverbio.
Ecco allora che John May non è altro che un crepuscolare Amélie al maschile, votato a conferire un senso all’esistenza altrui in attesa di poterne dare uno alla propria, andando incontro ad un’esperienza che lo cambierà per sempre ma con i suoi tempi, a piccoli passi, forse troppo lenti in confronto a quelli del destino beffardo, pronto a ribaltare improvvisamente il corso degli eventi.
Still Life incarna, per mezzo di una regia silenziosa ma profondamente simbolica e comunicativa, il tentativo di un uomo qualunque di esorcizzare la paura dell’oblio, tentando con tutte le proprie forze di spazzarlo dalla vita altrui, nella speranza di non essere dimenticato un giorno – se non dai vivi – almeno da coloro la cui morte è stata da lui profondamente onorata.
Un esempio (fra i tanti) di come sia possibile realizzare grande cinema con pochi mezzi e tanto talento, raccontando una storia piccola dal respiro universale.
Still Life ha vinto il premio miglior regia Orizzonti alla 70ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia; nel cast del film anche Joanne Froggatt, Karen Drury, Andrew Buchan, Neil D’Souza, Paul Anderson, Tim Potter e Ciaran McIntyre.