Storia di un fantasma: recensione del film con Rooney Mara
Dopo il successo in America, arriva in Italia Storia di un fantasma, con Rooney Mara e Casey Affleck.
Dopo la bella accoglienza al Sundance Film Festival 2017 e il plauso della critica americana, Storia di un fantasma di David Lowery arriva anche in Italia, disponibile sulla piattaforma SVOD Netflix.
Nonostante il titolo possa fuorviare lo spettatore, Storia di un fantasma ha ben poco a che vedere con gli horror delle case infestate, o – meglio – ne usa gli elementi per raccontare una storia completamente diversa. Si capisce come mai Indiewire.com l’abbia posizionato a metà classifica tra i film migliori del decennio 2010-2019: l’autore (e regista e montatore) Lowery ha sicuramente una grande personalità e il suo estro artistico gli permette di infrangere le regole di uno dei sottogeneri più antichi della storia del cinema (quello, appunto, delle case stregate). Il risultato è un film intimo, sofferto, struggente, che richiede una certa dedizione per poter cogliere tutti i passaggi narrativi che compongono un racconto meno semplice di quel che appare.
Storia di un fantasma: il cinema indie si appropria dell’horror
Storia di un fantasma di David Lowery racconta la relazione indistruttibile tra una giovane coppia, composta dal musicista C. (Casey Affleck) e M. (Rooney Mara). I due vivono in una casetta fuori città, in una calma apparente fatta di tenerezza, scambio e condivisione. La loro routine è tragicamente interrotta dalla morte di C. in un incidente stradale esattamente nella strada davanti all’abitazione. Portato all’obitorio, M. gli dà quello che lei crede essere l’ultimo saluto, prima di coprire il corpo con un lenzuolo bianco. Andata via la compagna, C. – con il caratteristico lenzuolo sulla testa – la segue fino a casa. Inizia, così, una convivenza silenziosa che si protrae fino a che M. non porta a casa un altro uomo, causando l’ira di C. La donna lascerà la casa dove ha vissuto con il compagno, e il fantasma di C. vivrà quello spazio avanti e indietro nel tempo in attesa del segnale che gli concederà di andare via.
Non c’è pressoché alcuna tensione nella messa in scena di questa storia; si avverte, semmai, la sofferenza dell’abbandono che identifica il fantasma come la memoria di qualcosa che non c’è più, come un rimpianto e un dolore persistenti. L’emotività di Lowery non si esprime con picchi di adrenalina, ma con una lenta e costante discesa nella malinconia del protagonista, accentuata da una sceneggiatura fatta di azioni, paesaggi, ambienti, quasi mai parole. Musica, piuttosto che urla, inquadrature ferme in cui compaiono quasi casualmente i personaggi, piuttosto che movimenti bruschi e innaturali.
Una storia di separazione
La morte è l’unica separazione che non permette un ritorno, per questo Lowery si serve della metafora del fantasma per esasperare un sentimento altrimenti molto comune. Il protagonista, C. non si dà pace per l’interruzione dei suoi progetti, che con tanto amore stava pianificando con la compagna M. e, imperterrito, rimane legato a quel luogo in cui sono stati felici insieme. Quando lei sceglie di andare avanti e realizzare per sé stessa quello che aveva sognato per loro due, lui continua a restare ancorato al ricordo della loro vita insieme, rimanendo – difatti – bloccato in un loop senza apparente via d’uscita. Il sentimento dell’attesa, addirittura, diventa fine a sé stesso, come dimostra il dialogo (anch’esso silenzioso) con il fantasma di una donna della casa di fronte: “Chi aspetti?” “Non me lo ricordo”. Una nota: il fantasma della casa di fronte, di cui non si vede né il volto né si sente la voce è la famosa popstar Ke$ha.
All’interno del racconto, però, Lowery introduce una variante, di non immediata comprensione. Il fantasma diventa il fantasma di se stesso e acquisisce una nuova consapevolezza, andando ad osservare la sua storia da un nuovo punto di vista. Qui la metafora diventa più chiara e il racconto si sblocca, così come il suo protagonista. Altrimenti, sarebbe stato un estenuante trascorrere del tempo, in una sofferenza cristallizzata e sempre uguale a sé stessa.
Storia di un fantasma: un’opera elegante
Il gran merito di Lowery è nella cura che ha riservato al film, fotogramma per fotogramma. Iniziando dal formato: un full frame (1.33:1), che sempre più di rado si trova nel cinema contemporaneo, che di norma privilegia i tagli panoramici. Ogni frame è, così, uno studio di luce e composizione, dove a ogni elemento estetico corrisponde un significato narrativo o metaforico. Anche il fumo che sporca l’immagine di tanto in tanto, e che potrebbe rimandare a un puro espediente atmosferico, fa riferimento, in realtà, alla morte del protagonista e al gas emesso dalla sua auto dopo lo scontro letale.
Un gran impianto formale – dove nulla è pretestuoso o superficiale – permette di dare una nuova dignità poetica alla figura del fantasma, la cui scelta di design (quello più classico, che fa pensare ai costumi dei ragazzini per Halloween) rischiava seriamente di sfociare nel ridicolo. Eppure, Lowery riesce a rendere un lenzuolo con due buchi per gli occhi una delle più alte rappresentazioni della sofferenza umana raccontate al cinema negli ultimi anni. Chapeau.