Strange But True: recensione del film con Margaret Qualley e Nick Robinson

L'angelica Melissa crede che il bambino che porta in grembo sia figlio del suo fidanzato Ronnie. Il problema è che Ronnie, a causa di un tragico incidente, è morto cinque anni prima... Un thriller psicologico ad alto tasso di imprevedibilità, in sala da giovedì 12 settembre.

Strano, ma vero. Un po’ come le leggende urbane, che romanzano piccoli fatti realmente accaduti rendendoli tanto irreali quanto affascinanti e, a loro modo, misteriosi. Il titolo del film di Rowan Athale – adattamento del romanzo di John Searles – assume il punto di vista della protagonista Melissa, che a cinque anni di distanza dalla digraziata morte del compagno Ronnie (e senza aver avuto alcun altro rapporto sessuale) si scopre incinta. La soluzione, per lei, non è che una: il padre è, clamorosamente, il defunto partner. Un’idea – appunto – strana, ma per forza di cose verosimile, seguendo il ragionamento della ragazza.

Strange But True prende il via nel momento in cui la futura madre decide di comunicare il prodigio alla famiglia del fidanzato, ancora in lutto nonostante sia passato un lustro: la madre Charlene è perennemente arrabbiata e tormentata; il padre Richard si è rifatto una vita allontanandosi dai luoghi che gli hanno provocato così tanto dolore; il fratello minore Philip si aggira con le stampelle a causa di un recente incidente automobilistico che nasconde un mezzo tentativo di suicidio. Il conflitto a questo punto deflagra, rendendo ancora più precarie vite già di loro in bilico e in cronica crisi.

Strange But True: una specie di strano miracolo

strange but true cinematographe.it“C’è un altro mondo oltre a questo? Andiamo lì quando moriamo? Dio esiste? E se esiste, perché accadono cose brutte? Se conoscessimo la verità saremmo meno spaventati o lo saremmo di più?”: in prima battuta Strange But True sembra semplicemente un teenage movie, con un tocco di fantastico e sovrannaturale. Tutto molto bello e, per l’appunto, molto tardo adolescenziale: la stesura grossolana dei dialoghi (con la scorciatoia narrativa dei personaggi che spiegano tutto, passaggi rivelatori compresi), i caratteri scolpiti nei cliché e la presenza nel cast del Nick Robinson di Noi siamo tutto (2017) e Tuo, Simon (2018) ci sembrano degli indizi più che sufficienti per etichettare il film nel suo sottogenere di riferimento.

Poi, invece, accade uno strano miracolo: nel momento in cui ci si rende conto che quella dell’ipotetica immacolata concenzione è una falsa pista, il film scopre la sua vera natura, fondata essenzialmente sul depistaggio, sulla demistificazione e sull’inganno. Uno scarto coraggioso, gestito con mano non sicurissima (lo sceneggiatore Eric Garcia si era finora fatto apprezzare solo per lo script di Repo Men, 2010) ma molto fedele al libro di riferimento. Il thriller psicologico si affianca quasi di prepotenza al fantasy precedente, lasciandoci per una significativa parte della pellicola interdetti e straniti. È il momento forse più centrato dell’operazione, quello in cui riecheggia – seppur molto alla lontana – lo stile vagamente trasognato eppure ossessivo del mai dimenticato cult American Beauty.

Strange But True: piccole bugie condivise

strange but true cinematographe.itIl bel twist di metà film, che rovescia praticamente in toto il nostro punto di vista, pone fine alle ambiguità fino a quel momento irrisolte e, con esse, un po’ allo stupore e al sense of wonder che teneva in piedi la vicenda. Ognuno ha i propri scheletri nell’armadio, che emergono anche – e forse soprattutto – al talento del cast: Brian Cox, Blythe Danner, Amy Ryan e Greg Kinnear interpretano caratteri ambivalenti e incompiuti, tutti protesi verso la protagonista Melissa (Margaret Qualley, figlia di Andie MacDowell) e verso il mistero che porta in grembo.

In un’opera che fa – a livello contenutistico – dell’imprevedibilità e della non convenzionalità le sue caratteristiche principali, avremmo forse apprezzato una maggior spavalderia, una maggior forza di tenere fede fino in fondo alle proprie promesse. Perché la storia è sconvolgente e coinvolgente, e di conseguenza spiace vederla ridotta, nella sua seconda parte, ad uno schema piuttosto sommario e prevedibile. Le belle frasi e le sfuggenti voci off aiutano, ma non possono risolvere tutto da sole. Così quando sul finale sentiamo pronunciare un definitivo “Da bambini facciamo grandi domande per dare un senso al mondo. Da adulti diamo risposte senza averne le prove. Adesso capisco che non c’è una sola risposta”, la sensazione, più che della chiusura del cerchio, è quella del leggero rammarico.

Regia - 2.5
Sceneggiatura - 2
Fotografia - 3
Recitazione  - 3.5
Sonoro - 3
Emozione - 2.5

2.8